È opportuno distinguere la capacità della musica di saper rappresentare i moti dell’animo, da quella, piuttosto ovvia e sperimentata da tutti, di suscitare sentimenti nell’ascoltatore.
Le due facoltà, infatti, non necessariamente coincidono: una poesia che parla dell’amore provato da un poeta per una donna, non automaticamente risveglierà un sentimento in chi la legge o la ascolta recitare. E se un sentimento viene suscitato, non è affatto scontato che coincida con quello provato dal poeta.
Così pure la scena drammatica di una rissa, in un film, potrà generare sensazioni diverse da spettatore a spettatore, e a vari livelli di coinvolgimento. È vero anche l’inverso: se una precisa immagine (o un preciso affetto) viene suscitata in un ascoltatore da una musica, non è affatto detto che tale “visione” o “moto dell’animo” sia stato previsto dal compositore.
A questo riguardo, il compositore Goffredo Petrassi scrive, su taluni registi: «Non sanno che la musica deve saper vedere dentro il personaggio ed influire psicologicamente sull’animo dello spettatore, con una facoltà di sintesi che trasforma il dato realistico in espressione sonora, tutto il contrario, quindi, di un semplice accompagnamento o di illustrazione a una serie di fotografie».
In riferimento a ciò, è bene sottolineare l’importanza che sempre assumono i fenomeni dell’identificazione, dell’introiezione e della proiezione quando ci si pone di fronte ad un’opera d’arte, fenomeni senza i quali non ci sarebbe quella attivazione emozionale (anche in senso negativo: ovvero quando l’oggetto artistico non soddisfa le aspettative, o quando non ci si riconosce nella vicenda, nei personaggi) indispensabile per creare comunque un rapporto fra il nostro mondo e quello dell’opera artistica. Oltre all’attivazione emozionale, si riscontra anche un’attivazione di tipo “somatico”: come è stato dimostrato dalla scienza, la musica condiziona il corpo di chi la ascolta, il suo battito cardiaco, il suo respiro, i suoi movimenti.
Ci si può identificare in un tema musicale, si può associare indissolubilmente un viso ad una musica, una persona reale o un personaggio ad una melodia (si pensi ai ritratti musicali fatti da compositori quali Gustav Mahler, Bela Bartok, Alban Berg).
In questo senso, un breve cenno al pensiero di Roland Barthes può essere di integrazione al discorso sulla differenza fra facoltà della musica di rappresentare, e reazione dello spettatore. Barthes, parlando dei diversi livelli di senso (cioè dei diversi approcci all’opera d’arte), pone la distinzione fra “significazione” e “significanza”. La significazione “cerca” il fruitore, ed è voluta dall’artista-autore. Riguarda il mondo della Cultura più che della Natura. A questo livello, musicologia, estetica della musica, psicoanalisi, sociologia, filosofia, semiotica “guardano” e studiano la musica.
La significanza invece, che Barthes definisce in modo un po’ fumoso “evidente, erratica, ostinata”, non è (probabilmente) intenzionale (ovvero non è concepita intenzionalmente dall’artista-autore) ed è ciò che, apparentemente secondario, il fruitore (anche non necessariamente acculturato), può cogliere in un’opera artistica in modo più epidermico ed istintivo. E non è sempre facile “far salire” al piano cosciente quegli elementi dell’opera d’arte che riteniamo troppo puerili e secondari e che per una sorta di pudore percettivo spingiamo verso gli abissi della nostra coscienza-consapevolezza. Ma gli studiosi sanno che l’oro può nascondersi anche nella significanza.
Nella musica, potremmo dire, significazione e significanza arrivano facilmente ad unirsi in un tutt’uno indistinto. Un po’ è la musica che “cerca” l’ascoltatore, un po’ è l’ascoltatore che “trova” nella musica.
Secondo, ad esempio, il compositore Gino Marinuzzi (1920-1996), noto tra l’altro per aver scritto le musiche per film e cortometraggi quali La carrozza d’oro (Renoir, 1952), La Mandragola (Lattuada, 1965), Le voci bianche (Festa Campanile e Franciosa, 1964), bisognerebbe sempre tener presente che «la musica è un’arte essenzialmente astratta e che quindi ad essa è concessa la evocazione di immagini, di sensazioni, che appunto in quanto non precisabili invadono con maggior prepotenza il regno della pura fantasia».
Il discorso della semantica musicale è un discorso complesso. Si passa, nelle composizioni, da un estremo “minimamente evocativo”, all’estremo opposto di musiche, invece, altamente evocative.
Anche se una musica di fatto è composta semplicemente da note, e quindi da una combinazione di suoni, si ha la sensazione netta di ricevere dalla musica dei messaggi, delle sensazioni, di vedere delle immagini. Alcuni registi di cinema hanno saputo “vedere” in determinate musiche un qualcosa di insospettato, eppure dal momento in cui essi creano una fusione fra determinate immagini e determinate musiche, si ha la sensazione che essi abbiano più che altro scoperto una simbiosi già presente in natura.
Qui sta la grandezza di alcune invenzioni che hanno fatto la storia della musica per film. Il campo cinematografico ha i suoi emblemi musicali: basta una manciata di note dal Trio op. 100 di Schubert, o dal An der schonen blauen Donau (Sul bel Danubio blu) di Johann Strauss Jr., o dal secondo Valzer dalla Jazz Suite n.2 di Sostakovic, o ancora dall’Inno alla gioia tratto dalla nona Sinfonia di Beethoven, per risvegliare nello studioso di cinema e nel semplice appassionato, (anche digiuni di musica), ben precise immagini, che si sono fissate nella coscienza collettiva in modo definitivo.
Il “Tema del bagno” di Psyco di Hitchcock, del 1960 (musica di Bernard Herrmann) è un motivo talmente celebre e sedimentato nell’immaginario collettivo da essere tutt’ora oggetto di parodie e banalizzazioni.
In fondo, la grande arte si basa sempre su una non distinzione fra innovazione sul piano della Cultura e il “già presente” sul piano della Natura.
La musica è in genere composta da tratti inventivi più personali, e da retorica, da formule, diciamo così, più anonime (quella che in pittura si chiama maniera).
Cosa distingue una composizione di valore da una meno valida? Il fatto che quest’ultima è fatta di pura retorica, mentre quella di valore presenta dei tratti originali, distintivi, dove si vede la personalità dell’autore.
In riferimento a quella parte inventiva più anonima e anche più “ancestrale” della musica, sono state individuate da alcuni studiosi (Frits Noske, Deryck Cooke, Marco Beghelli, per fare solo qualche nome) delle “particelle tipiche” che ricorrono in particolari momenti, in particolari situazioni musicali: il semitono dolente, l’acciaccatura, il tema della morte, etc. Quasi vocaboli che la musica pronuncia quando la situazione drammatica lo richiede (oppure anche in momenti inaspettati, e sono i casi più intriganti).
La scelta di adoperare queste cellule avviene per lo più per via inconscia, e l’attribuzione cosciente di un significato è stata data a posteriori. La componente caratterizzante di queste particelle – beninteso – non consiste necessariamente nel disegno melodico: essa può riguardare la melodia, tanto il ritmo, quanto il timbro, o l’intensità, o la durata.
Il tratto personale sta nel come e nel quando il compositore adopera questi vocaboli o questi elementi retorici. Le note acquistano un valore quasi somatico (ovvero: ciò che succederebbe ad un corpo umano, succede alle note, sebbene in modo estremamente stilizzato), sentiamo che esse imitano e descrivono. La musica allora può esprimere l’esaltazione quanto la caduta, lo sforzo quanto l’azione portata a compimento, la sofferenza quanto il piacere, il caos quanto l’ordine, la calma quanto l’inquietudine, la mascolinità quanto la femminilità, la tensione e la distensione (si veda il testo di Enrico Mancini La misteriosa apoteosi. Psicologia del punto culminante nella musica), e, non da ultima, quasi tutta la gamma delle emozioni umane, dalla tristezza alla gioia, alla paura.
La componente psicologica (ineffabile) viene nella musica tradotta in vibrazione sensibile, sensazione tattile, corporea, e soprattutto, visiva, appunto. Non ci rendiamo conto del “perché” ma sentiamo che è così. Così è stato al tempo di Claudio Monteverdi (tra ‘500 e ‘600), come pure ai tempi di Mozart (nel ‘700), e in modo sempre più particolareggiato nell’800 e nel ‘900 (prima, durante e dopo la nascita della psicoanalisi).
A questo proposito Alessandro Cicognini, trattando della musica del film neorealistico, ha affermato: «essa può rispecchiare la complessa sensibilità emozionale dell’uomo moderno». E già precedentemente si era espresso sulla capacità della musica dotta di riprodurre la misteriosa angoscia dell’uomo contemporaneo.
Sì, perché se è vero che anche nel ‘400, nel ‘500, nel ‘600 i compositori hanno saputo esprimere qualcosa di riconoscibile e decodificabile sul piano emozionale ancora oggi (ad esempio la sofferenza dell’amore non corrisposto, la gioia, etc.), è pur vero che la musica ha via via saputo affinarsi e particolareggiarsi. Le sinestesie filmiche tra musica e immagine hanno moltiplicato le capacità descrittive della musica.
Il già citato Giulio Confalonieri ha scritto: «Fin dai tempi più antichi, tutti hanno concesso alla musica un potere simbolico, un potere di rappresentare qualcosa, sia pure indeterminato, indefinibile e cangiante nell’atto stesso del suo apparire. La sensazione di un tal potere simbolico, intuito sotto la superficie enigmatica dei suoni, ebbe per effetto che molti pensatori delle età classiche e molti teorici delle civiltà orientali giungessero a identificare in certi modi musicali il corrispettivo esatto e invariabile di certi stati d’animo, di certi atteggiamenti e disposizioni dello spirito.»
E sempre a proposito della capacità della musica di rappresentare la complessità umana, si pronuncia: «La musica permette di rappresentarci in modo chiaro…quello che, di regola, ci turba e confonde, vale a dire l’incessante sovrapporsi in noi di sentimenti spesse volte antitetici, l’incessante ed inquietante consapevolezza di essere, contemporaneamente, più persone diverse, animate da desideri e da aspirazioni diverse».
Leggi anche: Una funzione della musica per film – (Parte I) e (Parte III)
About Luca Mantovanelli
Saturnino, introverso, Luca Mantovanelli ha iniziato presto ad interessarsi di musica e la sua curiosità per l’aspetto creativo e per la psicoanalisi sfocia all’università con una tesi sulla regìa operistica con applicazione al Don Carlos di Verdi. Ma sono proprio le trame delle opere liriche, talvolta – secondo lui - un po’ dispersive e distanti dalla sensibilità moderna, a ricordare a Luca che nel suo passato alcune altre trame (come per esempio di Amadeus e di Film blu) gli avevano cambiato un po’ la vita. Ecco allora una nuova presa di contatto da parte sua con la ‘settima arte’ (e Bobbio ha rappresentato senz’altro per lui un’insolita quanto stimolante esperienza). I suoi incontri con il cinema (di ieri e di oggi) sono stati sempre meno casuali e sempre più dettati dalla curiosità. Luca ritiene che i prodotti artistici migliori (che riscontrino un successo di botteghino o meno) siano quelli che sentiamo riflettere pezzi del nostro Io, e al tempo stesso in grado di indicarci o aprirci una nuova strada…perché è sempre indispensabile un quid di novità. L’introversione ha portato Luca a trovare nella scrittura il suo più congeniale e gratificante mezzo di espressione.