BOYHOOD

imagesRegia: Richard Linklater; Interpreti: Ellar Coltrane, Patricia Arquette, Ethan Hawke, Tamara Jolaine, Nick Krause; Anno: 2014; Origine: USA; Durata: 164’

Dodici anni della normalissima vita di Mason, bambino texano con i genitori separati, adolescente sognatore, giovane hipster, matricola al primo giorno di college. Dodici anni in cui le riprese si protraggono seguendo l’invecchiamento degli interpreti di pari passo con quello dei loro personaggi.

In un panorama cinematografico sempre più attento alle ibridazioni tra documentario e finzione (si vedano i trionfi di Sacro GRA e TIR ai festival di Venezia e Roma), l’operazione del texano Richard Linklater, per certi versi opposta e anch’essa premiata con un importante premio, l’Orso d’Argento per la Miglior Regia al Festival di Berlino, è senza dubbio interessante, per quanto debitrice di esperienze come The Up Series. Nel suo Boyhood, infatti, affresco dell’infanzia e dell’adolescenza di un americano qualunque, il regista si addentra in un territorio che è dominio indiscusso del documentario (Empire di Andy Warhol, per citarne uno totalmente incentrato su quest’idea, come pure i lavori di Ross McElwee): la possibilità di una rappresentazione reale e non solo realistica dello scorrere del tempo, una dimensione che il cinema di finzione deve restituire, per necessità di sceneggiatura e di produzione, inevitabilmente ricostruita a posteriori e posticcia nel suo flusso narrativo non corrispondente (spesso cronologicamente e contestualmente, ma soprattutto in termini di durata) a quello della ripresa. Le tecniche e i tentativi sviluppati per superare questo vincolo di rappresentazione fittizia non si contano: primo fra tutti, il piano sequenza che, con la sua coincidenza tra azione del riprendere e azione ripresa, è un ritorno prepotente del tempo nella sua durata reale e non a caso è soluzione espressiva spesso caratteristica di scene madri in grado di trasmettere i loro significati in modo più im-mediato, perché più vicino alla percezione umana.

Dove però la fiction riesce a concedersi squarci di realtà (nella scelta di interpreti della stessa estrazione sociale dei personaggi, ad esempio), si trova invece in difficoltà nel portare sullo schermo lunghi lassi di tempo senza ricorrere ai classici stratagemmi per restituire, con il tempo della narrazione, un simulacro credibile del tempo narrato. Linklater scardina parzialmente questo caposaldo. Parzialmente perché l’opera, dopo dodici anni di gestazione, non si presenta affatto come una rinuncia agli stilemi di rappresentazione del tempo propri della finzione, anzi. Nella costruzione di ciascuno dei dodici capitoli (che Ethan Hawke in corso di lavorazione chiamava proprio cortometraggi, a sottolineare la loro potenziale indipendenza) è profondamente classico e privo di qualsiasi intento di uscire dagli schemi della finzione e collocarsi sulla strada dell’ibridazione con il documentario. Quando però i segmenti vengono presentati in continuità uno dopo l’altro a formare il corpus dei 164 minuti del film, ecco apparire un nuovo personaggio, il vero protagonista, il senso ultimo (e forse unico) dell’intero progetto: lo scorrere del tempo, istanziato nelle creature che muovono l’azione, nella loro crescita fisica oltre che psicologica, nel bambino che diventa ragazzo, nella giovane energica che diventa donna disillusa e spaventata dagli effetti del tempo di cui porta traccia. Nel campo d’azione che era del trucco o del casting di attori che fossero proiezioni temporali compatibili uno dell’altro, interviene in prima persona il tempo facendosi presenza reale e palpabile e non più simulazione.

 

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Un film epocale, dunque, come il reparto marketing della Universal ha premurosamente sbandierato? Certamente no. Non è la prima volta che si tentano operazioni simili e forse anche più radicali: vale la pena ricordare, anche se lo spazio a nostra disposizione non permette un pur interessante confronto, il bel film di Marco Bellocchio, Sorelle Mai, risultato della giustapposizione di sei cortometraggi da lui diretti nell’ambito del corso estivo di regia che tiene tuttora ogni estate a Bobbio (e senza il quale, nota a margine, le pagine virtuali che state sfogliando non esisterebbero), simile per l’ambientazione familiare, per la struttura episodica (anche se molto più latente in Boyhood), ma soprattutto per la centralità del tempo fotografato sul corpo in cambiamento degli interpreti, in particolare quello di Elena, giovane figlia del regista piacentino, come figlia di Richard è Lorelei Linklater, che interpreta la sorella del protagonista Mason nel film del padre. Le due pellicole prendono poi chiaramente direzioni diverse: in Bellocchio lirica e a tratti surreale, sperimentale nella totale libertà creativa che si respira; in Linklater, al contrario, lineare e tesa, come vedremo, a un’astrazione della materia trattata che diventa parabola di una giovinezza generalizzata e spersonalizzata, nel suo proporre costantemente la sottomissione al tempo come condizione propria a tutti in quanto esseri umani e non inserire pressoché altri temi, consacrando, ad esempio, istituzioni come la famiglia (pur in un’accezione al passo con i tempi), dove Bellocchio ne ribadisce le contraddizioni, o l’immaginario geografico/retorico americano, con i suoi canyons incontaminati e le stradone che si perdono all’orizzonte, significando nuovi inizi sempre possibili. Gli eventi narrati in Boyhood sono, infatti, tutt’altro che originali, privi di una struttura drammatica, cinematograficamente poco interessanti e filmati in modo canonico da una regia senza grande personalità che si mantiene nascosta per non distrarre da una storia che non avvince nemmeno per un istante.

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Una sceneggiatura non a livello dell’ambizione del progetto? Ancora una volta no. Nel suo procedere per brevi incursioni in episodi più o meno significativi della vita di Mason, Linklater traccia un quadro coerente di quello che la maggior parte della vita principalmente è, ovvero una serie di fatti su cui non vale la pena di spendere parola, catalogati in ricordi a volte importanti nel processo di sviluppo della persona, ma molto spesso di rilevanza pressoché nulla. Linklater popola poi questa memoria di una giovinezza qualunque con una rosa di perfetti esemplari dello statunitense medio, figli del sogno americano, prototipi di middle class worker, membri di un sistema che riassorbe le poche pedine impazzite (il marito alcolista –un classico) nella normalità di una vita senza sorprese, inseriti nella Storia (americana), come il regista puntualmente sottolinea contrappuntando le vicende dei personaggi con precisi riferimenti temporali universali (il telegiornale, la campagna elettorale per le presidenziali), che rimangono del tutto contingenti, non essendone i protagonisti mai davvero partecipi, un semplice commento parallelo come quello musicale, eterogeneo e corposo spettro di dodici anni di musica leggera americana che svolge lo stesso compito di blanda contestualizzazione senza precludere un intento di universalità.

Ai personaggi Linklater mette in bocca discorsi di banalità spesso disarmante e filosofia spicciola e popolare su tempo e senso della vita e sui problemi di volta in volta più caratteristici dell’età in quel momento rappresentata, affrontati con la profondità e la capacità di analisi a ciò conformi; fa perseguire loro sogni e desideri comuni, sorride compiaciuto nello scegliere come protagonista un sedicente alternativo un po’ outsider, per questo ancora più trasversale a un’umanità generalizzata di cui condivide l’istinto di diversificazione e la volontà di fare della propria vita qualcosa di speciale. Le situazioni in cui li immerge suggeriscono, senza essere troppo didascaliche, lo sviluppo dei personaggi, dinamica ovviamente privilegiata in un film che ha al centro il tempo e quindi il cambiamento (o la persistenza opposta ad esso), valorizzato da un montaggio discreto, che privilegia una continuità liquida senza confini netti tra gli episodi, i quali si intersecano, quasi si trattasse di ricordi non più molto definiti che confluiscono in tutta naturalezza uno nell’altro; montaggio che rinuncia quindi al mutamento dichiarato (come poteva essere la slide nera con indicazione dell’anno prima di ogni episodio, vedi Sorelle Mai), preferendo che siano i corpi a parlare, in una sorta di eterno presente che ha sempre in sé la spinta del divenire; montaggio che sa più volte sfruttare le ellissi in chiave umoristica, collegandone in questo modo sensatamente i due estremi (i sogni di un futuro artistico che sfociano, nella scena e nell’anno seguenti, nell’impiego come sguattero che subito li mette in discussione con una più matura iniezione di realismo).

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L’operazione può risultare più o meno piacevole al pubblico, però a questo beniamino della scena indie post-Sundance una certa dose di coraggio non la si può negare: in un film che fa della banalità la sua cifra, nell’intento di essere massimamente rappresentativo di condizioni universali, seppur camuffato a tratti superficialmente da poesia nostalgica un po’ à la Lorenzo De’ Medici per soddisfare certi palati, la noia è dietro l’angolo, complice la durata ancora una volta conforme alla materia del film (lo spettatore deluso si sentirà decisamente invecchiato di tre ore all’uscita dalla sala). Dopo la trilogia di Before… rimaniamo dunque in attesa di qui al 2038 di “Adulthood” e “Oldness” e magari chissà che chi si ritrovi a girare per le stradine di Bobbio un’estate non incroci presenze austiniane importanti venute a carpire qualche utile segreto al Maestro…

VOTO: 7

About Carlo Gandolfi

Colui che scruta, cromaveglie di luce, onirosuoni.

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