SPAGHETTI STORY

spaghetti story

Regia: Ciro De Caro
Anno: 2013
Origine: Italia
Durata: 83’

Non capita di rado, specie ai frequentatori di piccoli cineforum infrasettimanali di quartiere, di assistere alla visione dei film accompagnati dall’odore – più o meno gradevole – della cena che, suo malgrado, qualche spettatore reduce dal recente pasto porta ancora su di sé.

Se l’olezzo sprigionato dalla persona che siede poche file dietro è – distintamente – di minestrone e il film in questione risponde al titolo di Spaghetti Story, per forza di cose ti si inarcherà lievemente il sopracciglio.

Quella diretta da Ciro De Caro è la storia di quattro giovani che cercano in qualche modo di cambiare le loro vite. C’è Valerio, un aspirante attore che sopravvive grazie a saltuari lavori part-time; Scheggia, suo amico, rivenditore al dettaglio (leggi “spacciatore”) dalla verità in tasca che abita ancora con la nonna; Serena (dottoranda che sente ticchettare l’orologio biologico) e Giovanna (massaggiatrice che sogna di vincere un concorso di cucina cinese), rispettivamente ragazza e sorella di Valerio.
Mei Mei, una giovane prostituta cinese sfruttata dal ragazzo con cui Scheggia si è messo in affari, offrirà loro l’occasione per rimettersi in gioco totalmente e come mai prima.

Spaghetti Story è un film girato in 11 giorni con una Canon 5D, autoprodotto, con un budget di diecimila euro. Ed è un film che fa – coraggiosamente – dei propri limiti un punto di forza.
Non ci sono i virtuosismi che la ricca strumentazione consente di realizzare, ma si nota un’originalità nelle scelte stilistiche e tecniche che non si può non apprezzare. Nemmeno la storia scende a compromessi con il mainstream: i personaggi sono “reali”, la vicenda è “vera”.
Gli attori non sono noti al grande pubblico (per qualcuno di loro – Cristian Di Sante/Scheggia –  si tratta del primo lungometraggio) e la sceneggiatura nasce dall’esigenza concreta di dare un ritratto fedele della situazione attuale. C’è un’onestà di fondo che attraversa il linguaggio (un romanaccio che fa il verso alla perfetta dizione cinematografica), i gesti (le raccomandazioni della nonna, gli spiccioli racimolati dalle tasche per pagare le bollette), le intenzioni (si parla di crisi senza neanche nominarla) ed è un’onestà incredibilmente magnetica.
Il pubblico applaude, ride e forse un po’ si commuove di fronte alle piccole avventure-disavventure dei personaggi. Dalle file dietro rumorosi assensi fanno eco alle immagini sullo schermo. I giovani si trovano di fronte a qualcosa che conoscono bene: la fatica di arrivare a fine mese, il lavoro che manca, la difficoltà a realizzarsi (sotto ogni aspetto). L’ironia equamente calibrata permette da un lato di non drammatizzare eccessivamente le condizioni rappresentate e dall’altro di non ridicolizzarle. Non ci si sente, per una volta, presi in giro da una riproduzione troppo pasticciata e lontana dal verosimile.

De Caro è partito dal racconto di una realtà che conosce da vicino, quella del precariato nel cinema, per parlare di una situazione – di un’instabilità – che è comune a tutti, sia economicamente che personalmente. Senza esibire, trasfigurare, esagerare né i contenuti né la forma.
Il titolo stesso – Spaghetti Story – fa riferimento ad un modo di fare, di operare, del tutto genuino, e indica la volontà di esplicitare un “made in Italy” che – lontano dal lusso a cui spesso questo marchio fa riferimento – è fatto di realtà semplici, modeste.

Il film ha girato i festival di San Marino, Hong Kong, Mosca riscuotendo consensi e vincendo premi. Ma il regista, reduce dalla presentazione della pellicola al 10° Reykjavik International Film Festival, da “bravo” precario dell’industria cinematografica nostrana, fa sapere che potrebbe sempre pensare di tornare in terra islandese (da cui si dice folgorato) per fare l’allevatore di pecore.
Spaghetti Story, tuttavia, a discapito della rada distribuzione, si sta rivelando un inatteso successo anche in suolo italiano (già un cult tra i giovani, sold out a Roma).
L’onestà vince a quanto pare, anche nel mondo della finzione per antonomasia.

E ci si accorge che è davvero così quando alla fine si scopre che i rumorosi consensi e le risate poche file più indietro, da altri non provenivano che da un’entusiasta settantenne, dal distinto odore di minestrone.

 

About Elena Cappozzo

Dopo la laurea in Filologia Moderna a Padova, studia Film Writing a Roma. Sognando di scrivere “per”, scrive “di” (cinema) qua e là, accendendo ogni tanto un cero a San...SetBlv. Il grande schermo è il suo primo, assoluto amore ma le capita con discreta frequenza di tradirlo con quello della tv e persino con quello del pc (quella da Youtube e serie tv è in realtà una dipendenza piuttosto grave, no judging.)

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