SPECIALE MARTIN SCORSESE – THE WOLF OF WALL STREET

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Regia: Martin Scorsese

Anno: 2013

Origine: Stati Uniti

Durata: 179’

Adattamento dell’autobiografia omonima dello squalo della finanza Jordan Belfort: la sua ascesa e il suo declino, dall’iniziazione alla spregiudicata attività di agente di borsa e ai suoi eccessi viziosi, alla fondazione di un impero fin dall’inizio ai limiti della legalità e ben presto apertamente criminale, all’inevitabile resa dei conti con la giustizia.

 

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Reduce, nell’ambito della fiction, da una fiaba parigina cinematograficamente nostalgica e da un ambiguo thriller psicologico avvolto dalle nebbie di un’isola misteriosa, lo Scorsese di The Wolf of Wall Street sceglie la natia Grande Mela per sancire un molteplice ritorno: ritorno ai protagonisti antieroici dei suoi universalmente acclamati spaccati della criminalità, qui nella sua subdola declinazione finanziaria; ritorno, nella scrittura degli eventi, a parabole ascendenti e poi discendenti classiche per il suo cinema da Toro Scatenato a The Aviator e un po’ meno classiche per una commedia, genere dal quale infatti si distacca dopo una prima ora esilarante, a tratti fino al lacrimogeno; ritorno ai tripudi produttivi di inizio millennio (soprattutto The Aviator, con cui condivide, oltre ai 100 milioni abbondanti di budget e all’uscita nelle sale americane nel giorno di Natale, la rovinosa megalomania del protagonista che ben si rispecchia nello sfarzo da kolossal); ritorno a un ormai consolidato sodalizio con Leonardo DiCaprio (assente in Hugo Cabret dopo aver militato in tutti i film degli anni Zero), degno erede dell’indimenticabile Robert De Niro sul soglio tutto italoamericano dell’attore feticcio d’elezione; ritorno infine all’attenzione per una creatura e per le derive grottesche a cui essa porta, motrice dell’azione fin da Boxcar Bertha, passando per una simbolica sequenza di Fuori orario e arrivando a Casinò (altro film a cui questo rimanda, foss’anche solo per la narrazione in prima persona e il folgorante inizio a carattere illustrativo), dove assurge a vero e proprio centro gravitazionale: il denaro, immortalato qui nel suo tempio indiscusso (ma eticamente discutibile) che dovrebbe imporsi fin dal titolo, ma che in realtà resta una presenza sostanzialmente estranea – vista dall’interno della società outsider Stratton Oakmont – fatta eccezione per la sequenza che vede un Matthew McConaughey nella piccola quanto esplosiva parte del mentore dell’ancora ingenuo Jordan Belfort. Sebbene infatti il montaggio dell’inossidabile Thelma Schoonmaker suggerisca un’azione organica delle varie individualità accolte nella Stratton, dalla prima penny stock venduta agli interrogatori della polizia finanziaria, il passaggio dall’analisi di questa prima aggregazione a quella dell’orizzonte immediatamente successivo (l’ecosistema borsistico) non viene pressoché tematizzato, tolto qualche rapido riferimento che lo dipinge come un ambiente malato di cui la fraudolenta Stratton sarebbe uno dei tanti sintomi, insinuazioni cui si smette ben presto di dar credito, dato che vengono sfruttate da chi le proferisce solamente per giustificare le proprie bassezze morali (dal suddetto mentore cocainomane per necessità a Belfort che si offre di aiutare l’FBI ad incastrare alcuni suoi illustri avversari – e finirà invece microfonato a strappare confessioni ai suoi compagni).

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L’interesse di Scorsese non è infatti quello di lanciare una banale accusa al sistema finanziario che genera aberrazioni come la Stratton (ma che i g-men non hanno difficoltà a stroncare), né è quello documentaristico di indagare i disonesti meccanismi alla base del successo di simili società offrendo una descrizione dettagliata del pump&dumb e di altre comuni frodi (lo stesso Belfort, durante uno dei suoi iperbolici monologhi in camera, rassicura lo spettatore disorientato dal fiume di informazioni tecniche di cui lo sta riversando dicendogli che non importa che lui capisca, quello che conta è che stiano facendo milioni). Oggetto del film è piuttosto il fascino indiscreto e controverso che suscitano, nell’orizzonte più ampio dell’umanità tutta, la ricchezza, la prospettiva – falsa o vera che sia – di entrare in men che non si dica nell’incensato mondo dei ricchi (e qui gioca a favore l’ambientazione finanziaria dove in un lunedì può crollare tutto oppure a due ore dal battesimo borsistico della Steve Madden ci si possono ritrovare in tasca 20 milioni) e gli eccessi nauseabondi che di esso sembrano essere propri, osceni per il mondo normale, come confesserà emblematicamente Belfort allo spettatore, “ma chi cazzo ci vuole vivere nel mondo normale?”

Ed è proprio nella messa in immagini di questa contraddittoria attrazione per ciò che è abietto e smodato, condizione peraltro profondamente connaturata nell’uomo dai riti dionisiaci ai poètes maudits, che risiede il maggior punto di interesse del film. Scorsese opta infatti per una soluzione molto ambiziosa per la scelta del campione da sondare in questa sua disamina: di fronte all’ambigua fascinazione di cui si è dato conto non vengono messi solamente i paradigmatici personaggi del film che non sanno resisterle (dai giovani che accorrono come api al miele non appena Forbes stronca pesantemente la società, a Belfort che non riesce ad abbandonare la Stratton ben sapendo che tale risoluzione porterà alla rovina sua e della sua creatura), ma è lo stesso spettatore ad essere chiamato in causa, diventando anch’egli di fatto una pedina sulla scacchiera del regista.

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I termini di questa inclusione vengono messi in chiaro fin dalla primissima scena: uno spot pubblicitario della Stratton Oakmont che anticipa il carattere divulgativo dei discorsi in camera di Jordan, che cerca di vendersi allo spettatore allo stesso modo di quanto abitualmente fa con l’ingenuo malcapitato di turno al telefono. A questo spot, flashforward di quello che sarà l’apice del successo della società di Belfort e mostrato giustamente in formato televisivo, tanto da confondersi quasi con le pubblicità proiettate prima del film stesso, viene fatto specularmente corrispondere un altro spot, prodotto stavolta al culmine del declino e interrotto addirittura dall’irruzione nel campo della telecamera dei federali con il mandato di arresto, a sottolineare la trasversalità di questo elemento fondante agli avvenimenti narrati, elemento che sfocia idealmente nella scena finale, il corso di tecniche di persuasione (con un carrello sul pubblico, riflesso dell’altro pubblico al di qua dello schermo), siglata per di più dall’opinabile morale pronunciata dal self-made-man Belfort, secondo cui non importa quanto in basso si possa cadere se si sa come vendersi senza collezionare il minimo rifiuto.

 

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È quindi l’intero film a configurarsi come un grande spot, ovviamente orchestrato in chiave ironica da Scorsese, che non vuole certamente assolvere Belfort né promuoverne i corsi di affabulazione per aspiranti subito-ricchi, e come un’ottima pubblicità esso cattura immediatamente lo spettatore con una messinscena sovrabbondante e frenetica. Ma come è destino delle ottime pubblicità quando sottoposte all’ossessiva riproposizione, alla cieca ammirazione iniziale si affiancano ben presto altre sensazioni, tra la saturazione e la noia, che portano a rivedere il proprio entusiasmo e ad esaminare criticamente ciò da cui esso è stato provocato. Sfruttando questo decorso, ma senza osare troppo (è assente la ben più estrema soluzione del loop e le situazioni sono sufficientemente differenziate da mantenere sempre sotto controllo l’attenzione del pubblico), il film accumula variazioni eccessive e grottesche sul tema sex, drugs & (moralmente) bassa finanza spingendosi fino al fastidioso e allo stomachevole per indurre lo spettatore a sperimentare, problematizzandola, la citata contraddizione tra fascino e repulsione, sentimenti che viaggiano sullo stesso binario nel corso di tutto il film. A questo proposito vale la pena ricordare alcune sequenze, dal Donnie di Jonah Hill che divertito temporeggia inutilmente nel consegnare i suoi due milioni al tramite per la Svizzera, all’estenuante episodio à la Fear and Loathing in Las Vegas del Lemmon 714, al naufragio del titanico Naomi, tutte servite da un’eccezionale interpretazione sopra le righe degli attori e da un montaggio funzionale alla frenesia e all’esagerazione delle scene (jump-cuts, raccordi scomposti, Ferrari uscite da Miami Vice protagoniste di un rientro dai due prevedibili diversi esiti).

Se però sulla carta gli ingredienti sembrano molto promettenti, lo stesso non si può dire della loro somma. Il ritorno a soluzioni, linguaggi e contesti già rodati non porta molto lontano, spingendo a un impietoso confronto dell’opera con i film che la precedono nell’ottica di un’ipotetica continuità, con un risultato sfavorevole per la prima. Le idee nuove allo stesso modo non sono proposte con sufficiente forza, sembrano rimanere abbozzate e timidamente latenti per non dispiacere a nessuno e si perdono nella durata di tre ore, coerentemente eccessiva come tutto l’impianto, nel corso delle quali il film soffre inevitabilmente in più punti, sebbene l’interesse e il piacere della visione vengano puntualmente ridestati con sapienti picchi di comicità e porzioni di scena ben scritte (per citarne una, la battuta su Mozart) e pecca di una marcata ridondanza che non si vuole rendere dichiarata cifra stilistica dell’opera e quindi rimane oscillante tra un significare qualcosa e il reiterare un mero esercizio di stile.

wolfofwallstreetSi ha più volte l’impressione di stare assistendo a un film che strizza l’occhio al pubblico più giovane, con toni a tratti non così dissimili da quelli di una lussu(ri)osa stoner comedy dal ritmo scatenato, che nonostante il notevole apparato visivo (sul momento l’estasi da pirotecnica dell’immagine e dei movimenti di camera eclissa ogni possibile difetto) fatica ad affrancarsi dal registro del puro intrattenimento e lascia un po’ delusi in quanto ad approfondimento dei pur interessanti nuclei tematici e a varietà delle soluzioni espressive adottate nel loro trattamento (che tendono al monocorde).

Per quanto sia molto apprezzabile e lasci ben sperare per il futuro, il senz’altro visibile tentativo di rinnovamento dell’ultimo Scorsese, che si muove senza sosta dal documentario alla finzione e in quest’ultima da un genere all’altro sperimentando tecniche e modalità differenti, non ha ancora trovato un giusto coronamento (sempre nel campo della fiction) e spesso egli sembra preferire per certi versi un comodo adagiarsi nella libertà produttiva che gli allori di una presenza ormai quarantennale nelle più alte sfere del panorama cinematografico mondiale gli consentono, piuttosto che un suo completo sfruttamento ai fini della ricerca di un’incisività che senza dubbio caratterizzava lo Scorsese ribelle, fautore della New Hollywood. Si esce dalla sala divertiti ma con l’amaro in bocca della svolta nuovamente mancata. Provaci ancora Martin, noi aspetteremo trepidanti come sempre.

 

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About Carlo Gandolfi

Colui che scruta, cromaveglie di luce, onirosuoni.

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