DUE CHIACCHIERE CON…IL GIOVANE FAVOLOSO

Dopo lo straordinario successo di botteghino (più di 5 milioni di incassi in quattro settimane di programmazione), il film di Martone sulla vita di Leopardi, presentato alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia e uscito nelle sale a metà ottobre, continua ad affascinare il pubblico.

Numerosi gli appassionati del poeta recanatese – e i fan del suo alter ego cinematorafico – che, qualche sera fa, hanno affollato una delle sale del vicentino che ha ospitato la proiezione e curato l’incontro con l’attore protagonista, il Cinema Verdi di Breganze.
Accompagnato dal critico cinematografico Enrico Magrelli, Elio Germano ha parlato dell’esperienza della realizzazione del film, della responsabilità di interpretare uno dei maggiori autori della nostra letteratura, del ruolo del cinema e dell’attore, del metodo di lavoro seguito.
Ecco qualche estratto dell’interessante conversazione che li ha visti coinvolti, assieme al presidente del cineforum e al pubblico.

Locandina de "Il giovane favoloso"
Locandina de “Il giovane favoloso”

P: Credo che ognuno di noi, dopo aver visto il film, faccia fatica ad immaginare Leopardi con un volto diverso da quello di Elio Germano. Un’interpretazione straordinaria ma anche una grande responsabilità…

E.G.: Questa è già una cosa di cui mi dispiaccio fortemente (ride). La prima difficoltà nello svolgere questo lavoro è stata dover rompere l’immaginario di ciascuno. La poesia è qualcosa che vive di immaginario, che si costruisce sul rapporto tra il lettore e le parole del testo. Io ho dovuto in qualche modo violentare questa dimensione nel dargli un volto, una postura, una voce. Il mezzo prediletto per conoscere Leopardi dovrebbe rimanere la sua scrittura, il film è sempre una forma di violenza in qualche modo. Spero almeno di aver invogliato qualcuno a leggere i suoi testi.

E.M.: Al protagonista della Teoria del tutto hanno spesso chiesto come ha fatto a dare credibiltà ad un corpo – quello di Hawking – che si trasforma per via della malattia e del tempo. Io mi chiedo lo stesso di te, ma in questo caso nessuno sa com’era esattamente Leopardi e questo è stato sia un vantaggio che uno svantaggio, immagino. 

E.G.: Nella mia carriera ho interpretato varie persone esistite o attualmente viventi. In questo caso è stato interressante lavorare sui testi, sulle testimonianze delle persone che lo hanno conosciuto. È stato un percorso immaginifico. In questo senso, alcuni dei massimi esperti di Leopardi, con cui mi sono consultato, mi hanno molto aiutato. Tra l’altro, se fossimo stati aderenti alle descrizioni (delle sue malattie soprattutto), ne sarebbe venuto fuori quasi un freak. Leopardi era una persona fortemente sgradevole a vedersi ma appena apriva bocca, sapeva incantare.
La sua deformità è servita anche per dare un’idea di lui come essere “diverso”.

E.M.: L’accartocciamento del corpo – nella parte finale vediamo Leopardi quasi piegarsi su se stesso – comporta dei rischi, può costituire quasi una pericolosa virata al clownesco…

E.G.: La mia interpretazione è frutto anche dalla mia esperienza. Mi sono ispirato a persone che conosco che si trovano in una difficile condizione fisica. E il confine col buffo e il ridicolo è interessante. Tutte le opere di Leopardi sono tese ad esaltare la debolezza, concetto molto contemporaneo, soprattutto in un periodo storico come questo in cui conta la competizione, lo scavalcare gli altri. Leopardi invece è un difensore del nostro lato emotivo, sensibile, del mondo dell’illusione. In questo senso l’accartocciamento rivela un tentativo di esserci non solo nel mondo esterno ma anche in quello “interno” delle idee, dei sogni, della fantasia, dei ricordi.

Stefano Messuri, Elio Germano ed Enrico Magrelli al Cinema Verdi di Breganze (VI)
Stefano Messuri, Elio Germano ed Enrico Magrelli al Cinema Verdi di Breganze (VI)

P: La modernità di Leopardi fu all’epoca non compresa nella sua grandezza, ma forse intuita nella sua pericolosità di pensiero libero…

E.M.: La sua diversità è evidente non solo fisicamente (è sempre fuori posto, è un “freak”) ma anche nella complicatezza, nella conflittualità, nell’anticonformismo del suo pensiero. Rifugge l’ottimismo della massa, insinua il dubbio. Martone l’ha definito un personaggio punk rock, quasi grunge.

E.G.: Qualsiasi definizione che alluda a culture attente alla condizione dell’uomo, piuttosto che al suo valore produttivo, andrebbe bene. Leopardi nella Ginestra ricorda la condizione di mortalità, di fragilità dell’uomo, lontana dal senso di onnipotenza delle teorie positiviste. L’elogio alla debolezza è anche questo.

 

P: Com’è la politica cinematografica del nostro Paese?

E.M.: Rispetto a questo film facciamo bella figura. C’è una commissione che valuta se la sceneggiatura merita un contributo da parte dello Stato (contributo che copre circa l’8-10% del costo del film) e Il Giovane favoloso l’ha ricevuto. Ma al di là di questo, fa poco, fa sempre di meno, immaginando che sponsor e mercato possano integrare le sue lacune, investendo sui progetti che si lascia dietro. Questo non vuol dire che lo stato debba finanziare ogni iniziativa culturale, ma ora fa troppo poco. Non è affatto vero che l’Italia investe sulla cultura. L’intervento di Elio a Cannes che ha fatto arrabbiare tutti, ha portato alla luce delle verità, ma le cose non sono cambiate purtroppo.

Elio vogliamo raccontare quale è stato il tuo approccio al film? Hai fatto un provino?

E.G.: No, io e Martone ci siamo parlati lungamente, ma non ho fatto un provino. Arrivare ad una “forma” è stato un processo lungo, c’è stato uno studio collettivo e congiunto sulla linea da seguire. Ho affrontato 3 mesi di preparazione prima di iniziare a lavorare sui testi della sceneggiatura. Questo è potuto accadere perchè ho firmato il contratto 3 mesi prima, cosa che solitamente non capita. Martone, che viene dal teatro, mi ha permesso di prepararmi con i dovuti tempi, per fare un lavoro con la serietà e la decenza necessarie.

E.M.: Pronuciare i versi di un poeta, far rivivere le immagini che evoca, è difficile. Come avete lavorato su questo aspetto?

E.G.: Il film era tutto un po’ in forma poetica, anche la prosa, dato che il linguaggio utilizzato non è un linguaggio quotidiano. La poesia ha la capacità di mostrare le cose senza definirle. Il cinema dovrebbe essere sempre poesia, invece spesso diventa definizione.

Elio Germano ed Enrico Magrelli.
Elio Germano ed Enrico Magrelli.

E.M.: Vi è capitato di girare qualche scena più di una volta?

E.G.: (ride) “L’Infinito” si chiama così anche per quello! È stato girato tantissime volte! Proprio per il fatto che è difficile rendere una poesia al cinema (perché un poeta dovrebbe recitare i testi ad alta voce?), abbiamo girato la scena in varie situazioni possibili, immaginando quando questo potesse avvenire (allo scrittoio, in giardino, con i fratelli…). Tra l’altro, girando a Recanati, tutta la troupe aveva comprato le magliette che vendevano in paese con i versi delle poesie. Mai una volta che qualcuno avesse la maglietta dell’Infinito quando serviva oh!

 

 

P: A cosa “serve” l’attore?

E.G.: A sparire. L’attore deve essere un bravo cameriere che serve il film, che lo nutre. Funziona se sparisce, deve deviare l’attenzione da sé alla storia.

P: Quanto incide la recitazione dell’attore e quanto le decisioni del regista?

E.G.: Il regista non è sempre quello che ti dice cosa fare. In questo caso è stato un lavoro collettivo. L’attore incarna l’idea, la visione del regista, deve cercare di “tradurre”. Prima di essere un interprete del personaggio, deve esserlo del regista, a livello quasi psicanalitico. Poi, certo, il regista suggerisce, orienta, ma fondamentalmente c’è uno scambio.

E.M.: Come è stato muoversi nell’ambiente originale, toccare le cose appartenute a Leopardi?

E.G.: È stata una grande opportunità. Il bello del nostro lavoro è che quando ti avvicini ai personaggi che devi interpretare, scopri che sono innanzitutto degli esseri umani. Noi siamo tutto, dipende quale lato del nostro carattere prende il sopravvento, che esperienze facciamo nella nostra vita. Leopardi siamo anche noi. Non esistono miti, geni o mostri, noi siamo tutto, questa è la mia grande convinzione come attore.

Elio Germano.
Elio Germano.

P: Ci sarà un backstage?

E.G.: Sì (ride). Immaginatevi io che appena finito di girare, ancora con il trucco addosso e la gobba, me ne vado in giro e mi metto a chiacchierare dell’ultimo gol della Roma. Ecco, queste cose non le vedrete mai, ma c’è dell’altro materiale molto interessante. Se ne è occupato Edoardo Natoli, che tra l’altro nel film interpreta Carlo, il fratello di Giacomo.

P: Elio usi particolari tecniche? Hai dei consigli da dare a chi vuole intraprendere il tuo mestiere?

E.G.: Non credo nelle tecniche e nei metodi. Lo strumento del lavoro dell’attore è il suo corpo, non puoi migliorarti se non continuando a lavorare, esercitandoti e liberandoti della paura del giudizio. Il “dover piacere” è la morte dell’arte.

Durante la conversazione, Germano ha fatto cenno alla poesia leopardiana che, tra tutte, preferisce. Se, come lui stesso si è augurato, la sua interpretazione avesse suscitato il vostro interesse e la vostra curiosità nei confronti dell’opera del poeta, cliccate sul link di seguito, troverete il testo a cui fa riferimento.
Cinema e Poesia

A cura di Giulia Scalfi ed Elena Cappozzo

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