Regia: Wang Bing
Anno: 2013
Origine: Cina, Giappone, Francia
Durata: 227′
«Se uno è pazzo, è pazzo. Ma lo è?».
Suona quasi filosofica questa domanda che Zao si pone mentre parla con uno dei suoi compagni di stanza. Filosofica e spiazzante perché Zao è internato in un manicomio della regione dello Yunnan, sud ovest povero e degradato della Cina moderna.
A tale quesito fa eco l’affermazione, in una delle scene seguenti, di un altro internato: «A stare qui dentro si diventa malati di mente».
In queste due frasi risiede una delle chiavi di lettura per comprendere la sofferente bellezza del documentario di Wang Bing.
Il regista, bloccato a Parigi a causa della neve, sfortunatamente non ha potuto essere presente alla proiezione della pellicola, presentata in concorso al Milano FilmMakerFest 2013, (che l’ha premiato assegnandogli il 2° posto, ndr). Un vero peccato: sarebbe stato interessante ascoltare dalla sua voce l’esperienza vissuta lì dentro da “esterno”. Interessante soprattutto perché quel “dentro” non è una clinica psichiatrica. È molto peggio.
È una struttura fatiscente che accoglie – o meglio, raccoglie – persone con disturbi mentali, ma anche uomini con problemi di dipendenza da alcool o da stupefacenti, individui considerati socialmente pericolosi, disabili e barboni. Un paio di loro, come spiegato nella didascalia finale che appare prima dei titoli di coda, sono stati registrati con “nome ignoto”.
L’identità di chi invece un nome all’anagrafe ce l’ha, viene ugualmente annientata, logorata giorno dopo giorno da rituali alienanti con dottori fantasma che appaiono raramente nelle riprese e quando ci sono non è per curare, ma solo per sedare o punire i pazienti quando appunto “pazienti” non sono.
Il loro quotidiano è scandito da lunghi sonni e pasti veloci, somministrazione di medicine e TV, qualche sigaretta fumata tra le sbarre e la sporadica visita di un parente.
Abitano in pochi affollati metri quadri, ingabbiati nel quadrilatero claustrofobico e sporco in cui s-corre la camera a mano di Bing che con occhio discreto e mai invasivo inquadra i volti stralunati, gli attacchi d’ira, i gesti di affetto di alcuni, la quieta disperazione di molti altri.
Poi, con improvvisi movimenti di macchina accelerati, segue le estemporanee corse di uno dei più agitati e giovani pazienti nel quadrato di luce e aria che si trova fuori dalle stanze-loculo e si ferma in brevi primi piani sulla fissità dei loro sguardi, fissità che richiama una paralisi del sentire.
Bing non vuole mostrare solo il lato straniante di quel tipo di realtà, ma anche momenti di avvicinamento, di normale interazione. L’istinto della socialità è sentito da alcuni: si scambiano oggetti, condividono cibo e sigarette, si abbracciano, dormono insieme nello stesso letto.
Il bisogno del contatto con l’altro, la necessità relazionale sono urgenze di vita e rendono vivo quello che resta di un essere umano abbrutito da un ambiente ostile alla vita stessa.
Urla, rumori di cancelli che si chiudono, sputi, lamenti animaleschi, pianti, folli risate costituiscono l’apparato sonoro del documentario che non contempla nessuno spazio per la musica, ma solo qualche breve e beffarda rima intonata ogni tanto da un paziente come: «Questo mondo è così bello, ma il vero amore è difficile da trovare.»
Dalle sbarre che segnano il confine con l’esterno arrivano tracce della vita che prosegue indifferente fuori da quel posto. La neve che continua a cadere, il sole a brillare, i fuochi d’artificio a scoppiare, unici segni temporali che indicano il passaggio delle stagioni e l’arrivo di un nuovo anno che, per chi è “dentro”, trascorrerà tristemente identico.

About Ivana Mennella
Partenopea di nascita e spirito, ma milanese di adozione, si trasferisce all’ombra della bela Madunina nel 2007. A 10 anni voleva fare la regista. A 20 la traduttrice per sottotitolaggio e adattamento dialoghi. A 30 la sceneggiatrice. A 40 sa con certezza una sola cosa ossia che il cinema è ancora e resterà sempre la sua più grande passione.