Titolo originale:Nomadland; Regia: Chloé Zhao; Interpreti: Frances McDormand, David Strathairn, Linda May; Origine: Stati Uniti d’America; Anno: 2020; Durata: 107′
Prima ancora del film, il racconto è quello del ritorno in sala. Una specie di quarta parete rovesciata, dove il grande schermo, impaziente di riaccendersi, ha assistito ad una trepida, nuova “prima volta” sulla poltrona di un cinema. Dopo stagioni passate a guardare i film a casa, fa quasi strano tornare ai film doppiati, nessun sottotitolo, nessun nastro in sovraimpressione a dire quanto manca alla fine, la posa ricomposta dopo tanto stravaccarsi su sedie, letti e divani. Ogni freddezza viene meno, quando la intro della Searchlight Pictures tambureggia e strombazza contenta e l’ampiezza delle immagini torna a brillare per noi.
La storia di Nomadland è quella di Fern (Frances McDormand) che nel 2011, alla soglia dei sessant’anni, si trova senza lavoro e senza marito, in una città fantasma del Nevada; dopo lavoretti saltuari, per una serie di circostanze, finisce ad abitare in un van. Questo stato di cose la porta a vivere lì dove trova lavoro (un centro di smistamento Amazon durante le vacanze natalizie, un parco divertimenti nel South Dakota, un posteggio per altri motorhome, la raccolta delle barbabietole nel Nebraska). Significativi ed emozionanti gli incontri e i pezzi di vita condivisi con altri specialisti del vandwelling (dimorare in van): Dave, non molto convinto della sua solitudine; Linda, finalmente libera dal male di esistere grazie ad una vita in armonia col Pianeta; Swankie, determinata a perseguire un obiettivo tutto suo.
L’opera ha conseguito, tra i più prestigiosi riconoscimenti, il Leone d’Oro al Festival di Venezia, il People’s Choice Award al Toronto International Film Festival, due Golden Globe (tra cui quello per il miglior film), il BAFTA per il Miglior Film e tre Oscar (incluso quello per il miglior film).
Suggestiva la colonna sonora di Ludovico Einaudi, in continuità stilistica ed espressiva rispetto al resto della sua opera, fortemente improntata al naturalismo e all’emergenza ambientale (si pensi ad esempio ad Elegy for the Arctic del 2006).
In sintonia su questo tema la fotografia di Joshua James Richards, aficionado di Zhao, fotografia che riflette toni e profili di amore per il pianeta. Finalmente godibili sul grande schermo, i tramonti deserti diventano ancora più deserti, le fredde desolazioni sono ancora più fredde, lo sporco vivere è ancora più sporco, i silenzi, complice la sala del cinema, sono ancora più silenziosi.
Da rimarcare la fortissima trazione femminile del film. Chloé Zhao, trentanovenne regista cinese, è la seconda donna (dopo Barbra Streisand nel 1984 con Yentl) e la prima donna di una minoranza etnica, a vincere il Golden Globe, nonché la seconda donna (dopo Kathryn Bigelow nel 2010 con The Hurt Locker) e la prima donna di minoranza etnica a vincere il premio come miglior regista. Dopo aver dichiarato le proprie posizioni critiche verso la sua madrepatria, Zhao ha visto revocarsi l’intera distribuzione cinese del suo film e completamente silenziata la notizia della sua vittoria agli Oscar.
Frances McDormand, al suo terzo Oscar e secondo BAFTA per l’interpretazione di Fern, diventa la prima donna a vincere contemporaneamente il premio da attrice e da produttrice. E’ vero che prima di loro altre donne sono arrivate a vincere premi, ma che lo facciano assieme regista, attrice protagonista e produttrice è segno che la strada sembra finalmente tracciata (verso l’eliminazione del genere per l’assegnazione dei premi agli attori?). Anche l’appartenenza a una minoranza etnica è un occhio reale verso le disfunzioni del “Sogno Americano”, di cui Nomadland rappresentaun buon punto di vista.
Inquadrare Nomadland come un road movie lo individua come l’ennesima declinazione, nemmeno troppo originale o irripetibile, del genere. Con o senza pretese filosofiche Thelma e Louise (Ridley Scott,1991) e Into the Wild (Sean Penn, 2007) hanno segnato ciascuno un’epoca nell’immaginario dello spettatore di quel tempo. Nomadland, in tal senso, rappresenta una spinta evolutiva proprio nella poetica del road movie, in cui la mano ferma e gentile di Zhao su girato e montaggio risulta decisiva. Finora siamo stati abituati agli elogi della fuga, di cui Salvatores ha realizzato addirittura la “trilogia (o tetralogia)”, fino a vincere l’Oscar con Mediterraneo (1991).
Il cambio paradigmatico è stato dettato con tutta probabilità dal tempo che stiamo vivendo, in cui la fuga ci è stata resa impossibile o più lenta del modo che il mondo ha trovato per scappare via dall’umanità. In questo senso, al di là della dedica dovuta da Zhao, che non spoilero, il film è dedicato a coloro che stanno raggiungendo. E per far questo i luoghi del film sono reali e i suoi protagonisti in parte impersonano se stessi (come Bob Wells, guru del vandwelling). Che siano persone da cui la salute, l’amore, il successo siano già fuggiti, se non proprio “scarti della società”, come li definisce lo stesso Wells, i nomadi del film raggiungono un nuovo stato del sé, una teleologia dinamica il cui scopo si chiarisce, oppure no. Ma non è forse incerto anche l’esito della fuga?
Beatrice Zippo
Classe 1983,vive appieno a Capurso, in provincia di Bari. Oltre che una cinefila, appassionata di cinema d’autore e di biopic musicali, è un continuum tra i numeri, di cui si occupa di giorno, e le sinestesie delle arti tutte, dalle belle arti alla settima arte, passando per quella culinaria.