“Ma non capisci proprio niente Osgood! Sono un uomo!”
“Beh…nessuno è perfetto!”
È il 1959 quando nei cinema statunitensi esce una delle commedie americane più brillanti, vincitrice di un Oscar e tre Golden Globe: A qualcuno piace caldo. Ma, nonostante l’enorme successo, il film fu condannato dai cattolici e dall’organizzazione americana dei produttori cinematografici a causa degli argomenti trattati. Verrebbe da chiedersi: perché? Oggi, il cinema internazionale del nuovo millennio ci pone dinnanzi a visioni ben più “scabrose” rispetto alle quali il clamore per la commedia di Billy Wilder sembra paradossale. Eppure, nonostante l’emancipazione, la parità dei sessi e l’uguaglianza tra maschio e femmina, oggi come ieri un uomo che si veste da donna è visto diversamente rispetto a una donna che si veste da uomo.
Infatti la storia, la letteratura e l’arte ci insegnano che, se il pater familias inizia ad indossare gonna e tacchi a spillo, la regina della casa non può più fare a meno di pantaloni e papillon. Forse è questa la vera parità, la vera uguaglianza, un’uguaglianza che parte da molto lontano e che si è da sempre palesata attraverso il costume e l’apparenza, quella necessità di mostrarsi esternamente per come si è all’interno.
Quest’inversione di rotta, fuori luogo e obsoleta per i più, è in realtà “vecchia come il cucco”, per dirla con un’espressione tipica toscana, una trasgressione che di trasgressivo ha ben poco. Sin dall’antichità (dove per antico s’intende quando ancora internet non spopolava e non esistevano i trasporti!) sono presenti esempi di donne che attraverso il loro essere “diverse”, hanno segnato l’epoca in cui vivevano. Dai racconti mitologici ove si narra di Atena, dea della guerra, abbigliata con una divisa tipicamente militare, sino all’Odissea, nella quale la stessa giunge in aiuto dei mortali vestita da uomo. E ancora, Marina di Bitinia, una donna che ha vissuto camuffata da frate o la Papessa Giovanna che, secondo la narrazione, nel periodo compreso tra l’855 e l’859 a.c. sarebbe riuscita a diventare Papa travestita da uomo; la celebre Giovanna d’Arco, eroina nazionale francese, fonte d’ispirazione per saggi, romanzi, biografie, opere teatrali e cinematografiche.
Anche la Disney con il suo cartone animato del 1998, Mulan, si fa portatrice della leggenda di una storica eroina cinese che, per aiutare il padre, si arruola in un esercito di soli uomini con sembianze maschili; ed ancora il celebre anime degli anni Ottanta, Lady Oscar, racconta le avventure di una donna comandante della guardia reale francese, educata e vestita come un uomo fin dall’infanzia.Un cambiamento, una rivoluzione che è sempre stata presente ma sconosciuta ai più per quell’arcaica ideologia di considerare il gentil sesso assoggettato all’uomo.
E dunque, quali testimoni migliori se non i film che hanno spesso raffigurato donne sottomesse, incapaci d’intendere e di volere, negazioni di se stesse. Di questo stereotipo si è nutrita la commedia nostrana come nel caso di Divorzio all’italiana del 1961 nella quale Pietro Germi propone un ritratto femminile che trova la sua più totale realizzazione solo attraverso la subordinazione all’uomo amato, descrivendo un modello di donna poco curata, distratta, nascosta sempre più dietro abiti accollati e lunghe gonne, in una parola: debole. Uno stile che la moda non poteva certamente accettare, soprattutto nel momento in cui si sono imposte nel panorama internazionale figure che hanno radicalmente cambiato gli usi e i costumi di intere generazioni, donne che con le loro intuizioni e la libertà di essere se stesse hanno modificato il corso naturale degli eventi.
Per questo, tendenze come quelle lanciate da Coco Chanel hanno segnato uno spartiacque del quale non si può non parlare. Con Chanel non è solo l’abbigliamento a cambiare, ma anche la percezione che si ha di esso. Grazie alla voglia di vestire donne attive, che avevano bisogno di sentirsi a proprio agio, la giovane Coco plasma un modello novecentesco che diverrà paradigma di tutte le generazioni future: quello di una donna che porta i pantaloni. Dinamismo e lavoro sono le parole-chiave di questo nuovo stile che spingono il gentil sesso ad acquisire una sempre maggiore consapevolezza di se stesso e delle proprie capacità. Uno stile che non è svanito con la morte della sua creatrice, ma che domina ancora oggi le passerelle d’alta moda con camicie bianche e cardigan, pantaloni e scarpe bicolori.
Il 1930 è l’anno della svolta: nelle sale arriva Marocco, di Josef Von Sternberg con protagonista Marlene Dietrich. La carismatica diva tedesca è la prima a giocare con i codici e gli stilemi dell’abbigliamento maschile, mescolando e confondendo i due generi. Una diva dal forte fascino carismatico e ambiguo, “una donna che perfino le donne possono adorare”, la cui sensualità un po’ androgina è accentuata in Marocco attraverso un uso della luce alla Rembrant, volta a valorizzare gli zigomi. Il look della Dietrich è riproposto oggi sulle passerelle di tutto il mondo, rilanciando un “nuovo” modo di valorizzare ed intendere il corpo femminile: capelli corti portati all’indietro con onde tipiche degli anni trenta, abiti maschili nei tagli ma femminili nei tessuti, come sete e pellicce. Una commistione di generi e accessori, un outfit nel quale papillon e cravatta si uniscono a sandali e pochette, a camicie di seta e fili di perle.
Nuove e vecchie tendenze portano alla nascita del fenomeno genderless, nel quale la distinzione di genere si annulla e, sia l’uomo che la donna, possono scegliere d’indossare capi neutri, unisex. E, se la moda odierna s’impone all’improvviso con questa tendenza, il cinema riflette invece il processo in maniera graduale. È il 1940 quando in Scandalo a Philadelphia, Katharine Hepburn alterna lunghi abiti con paillettes a pantaloni, camicie maschili e giacche, proponendo una figura di donna forte e decisa che “porta i pantaloni”.
Nel 1982 lo smoking diventa protagonista assoluto, estremizzando ancora di più i tratti femminili in Victor Victoria (remake di Victor und Victoria del 1933) con una Julie Andrews nei panni di un soprano che incanta il pubblico con virilità e forza. In Boys don’t cry (1999), una giovane Hilary Swank interpreta una ragazza che nega la propria femminilità a tal punto da tenere segreta la sua identità presentandosi a tutti come Brandon.
È evidente come il cinema nell’arco di quasi un secolo abbia affrontato e trattato questo tema in maniera progressiva e con esiti diversi. Per fortuna il cammino iniziato da Marlene Dietrich non è stato interrotto, anzi il fascino e le caratteristiche androgine lo rappresentano ancora: grazie a Tilda Swinton, una diva che, come Marlene, mantiene questa peculiarità dentro e fuori dal set cinematografico. Ad esempio in Orlando (1992) la Swinton interpreta con estrema naturalezza un personaggio che cambia sesso nell’arco della narrazione, amalgamando in se stessa caratteristiche del maschile e del femminile.
Così il cinema rispecchia l’anima della società raffigurando sullo schermo cambiamenti che spesso l’occhio umano fatica a recepire: settembre 2015, alla 72° Mostra del Cinema di Venezia, viene presentato in anteprima mondiale The Danish Girl. Eddie Redmayne nei doppi panni di Einar/Lili ci regala un’interpretazione nella quale l’unica cosa certa è lo sguardo reale e veritiero di chi interpreta non un uomo o una donna, ma una persona. Buona visione!
Vedi anche: Cinema e transgender: un percorso tra i film che hanno trattato il tema.

About Giulia Sterrantino
Nasce in Sicilia e dopo aver frequentato il liceo classico si trasferisce a Padova per studiare cinema. Si laurea in Spettacolo e Produzione Multimediale con una tesi sulla sceneggiatura italiana contemporanea. Il suo sogno da bambina era quello di diventare una stilista di moda. E forse lo è ancora. Ama i film fuori dal comune, i libri che nessuno ha mai letto, il viola, i rossetti, il suo cane Ulisse, fare dolci e mangiarli, passeggiare in bicicletta, girare per il mondo e tornare a casa.