Titolo: In between; Regia: Maysaloun Hamoud; Interpreti: Mouna Hawa, Sana Jammelieh, Shaden Kanboura; Origine: Israele, Francia; Anno: 2016; Durata: 96′
Salma, Leila e Noor sono tre ragazze palestinesi che condividono casa a Tel Aviv. Diverse per carattere e background culturale ma uguali nella loro voglia di essere felici e libere.
All’anteprima milanese della proiezione del film In between di Maysaloun Hamoud, la sala Quattrocento dell’Anteo è gremita. Tra gli spettatori ci sono soprattutto donne perché questo è un film femminile e femminista nell’accezione migliore del termine.
La presenza della regista e di una delle protagoniste in sala ha permesso di chiarirne le sfumature in una intervista-dibattito molto stimolante alla quale il pubblico ha partecipato in maniera entusiasta.
Il privilegio di poter avere un confronto con chi ha diretto la pellicola dona l’opportunità di aprire i confini della propria visione cinematografica e non. I diversi punti di vista emersi tra gli spettatori, Maysaloun Hamoud e Mouna Hawa ha smussato i preconcetti che abitano in noi e che inevitabilmente fuoriescono quando ci avviciniamo a tematiche religiose e culturali.
La storia è ambientata a Tel Aviv considerata roccaforte ebrea perché capitale dello Stato di Israele, ma le tre ragazze sono palestinesi perché, come tiene a sottolineare la regista, a Tel Aviv non vive solo una piccola comunità palestinese ma ben 1.500.000 palestinesi.
Le tre protagoniste di In between sono Noor, musulmana ortodossa, Leila che non è praticante e Salma, palestinese di religione cristiana.
Ed ecco che già comincia a sgretolarsi qualche errata convinzione che magari si era insinuata. Uno dei ruoli del cinema è questo, aprire la mente, smantellare certezze precostituite, radicate in noi e irreali.
Crediamo di trovarci dinnanzi alla classica storia di libertà negate da una religione che imbavaglia le donne e invece questa storia appartiene a noi, alla nostra cultura occidentale più di quanto pensiamo. È la stessa Hamoud a sottolinearlo ad una platea di spettatori che tende a riportare il racconto filmico ad una mera questione di geo localizzazione. “È un film universale, una realtà che potrebbe essere europea. Siete certi che quello che avete appena visto non succeda anche qui in Italia?” chiede con un sorriso provocatorio. Del resto la violenta reazione all’omosessualità di Selma proviene dal padre che è cattolico e non musulmano ortodosso.
Quando il confronto verbale non riesce a “tenere” la donna nei ranghi usuali, la si trat-tiene con la prepotenza. Il fidanzato e futuro sposo di Noor non approva le due coinquiline Leila e Salma e userà la violenza per far comprendere a Noor che lei appartiene a lui e non a sé stessa. Il femminismo a cui si accennava all’inizio sta in questo, nel proprio affermarsi come donna con una propria identità ben precisa e non una “costola di Adamo”.
Anche l’uomo che frequenta Leila, che ha vissuto a New York e ha studiato cinema e che si presuppone abbia una mente tanto aperta da innamorarsi della più sregolata e indipendente delle tre donne, ha un limite di tolleranza e cerca di tarparle le ali. Sottolinea la sua sconvenienza nel fumare, nel vestire in un certo modo e la ritiene poco presentabile alla sua famiglia musulmana osservante.
La difficoltà di accettare la diversità di chi non segue le linee guida di un’educazione religiosa o sociale di un certo tipo crea un conflitto con chi è ritenuto diverso. L’emancipazione dai modelli familiari non è contemplata, distanziarsene quasi un reato morale.
Qualcuno in sala fa notare alla regista che nel suo film non c’è nessuna figura maschile che si salva, sono tutti maschi deboli o violenti, ma la sua risposta ribalta questa visione. “Le donne sono più forti degli uomini, ma non è vero che il mio film non contiene speranza. Io spero che noi donne troviamo uomini buoni che ci rispettino altrimenti meglio stare da sole”. E ci pone un punto di vista differente: “Gli uomini sono anche loro delle vittime perché sono in between. L’‘uomo di Laila, ad esempio la ama ma le aspettative del luogo da cui proviene sono molto alte e lui è combattuto tra le due spinte. Non sa come liberarsi di questo retaggio. Il padre di Selma la schiaffeggia perché ha saputo che è lesbica, ma mentre lo fa piange perché sta male. Anche il compagno di Nour la prende con la forza perché non riesce a controllarla”.
Ci si chiede quale sia il prezzo che le donne palestinesi hanno dovuto pagare per conquistarsi margini di libertà e la domanda prende voce. La risposta di Hamoud è amara ma giusta. “Le donne palestinesi non sono diverse dalle altre. Quando si proviene da una società conservatrice e si spezzano le regole si viene etichettate come prostitute”.
Hamoud ha ricevuto minacce da parte degli integralisti, ma da una parte ben precisa di questi ossia la cittadina di provenienza di Nour, Umm al-Fahm, città conservatrice per eccellenza. “Il pubblico palestinese non è abituato a vedere film indipendenti e non capiva se era un film o un documentario quindi questo ha un misunderstanding di base” chiarisce la regista.
Non c’è accenno al conflitto arabo-israeliano nonostante la storia sia quella di tre donne palestinesi a Tel Aviv ma questa è una precisa scelta registica, si è preferito focalizzarsi sulla questione femminile come lei stessa dichiara. Araba-israeliana è invece la produzione nata da una collaborazione di Hamoud con Shlomi Elkabetz, un regista e attore israeliano, ebreo ma non sionista come tiene a specificare la regista: “Lui e io siamo la produzione e siamo una famiglia. Lui è un amico ed è sensibile. È ebreo ma non è un sionista. Cosa importante.”
Il film si apre con la scena di una donna araba che depila le gambe di una ragazza e intanto le spiega i trucchi per tenersi stretto un uomo: “Ricordati di essere sempre gentile. Agli uomini non piacciono le donne che alzano la voce. A letto fai quello che ti dice. Così quando lui ti desidererà tu sarai pronta”. L’ultima scena è diametralmente opposta: le tre protagoniste fumano e bevono a un party dove gira droga e alcool. Due modi opposti di essere donna e, In between, la loro vita.
About Ivana Mennella
Partenopea di nascita e spirito, ma milanese di adozione, si trasferisce all’ombra della bela Madunina nel 2007. A 10 anni voleva fare la regista. A 20 la traduttrice per sottotitolaggio e adattamento dialoghi. A 30 la sceneggiatrice. A 40 sa con certezza una sola cosa ossia che il cinema è ancora e resterà sempre la sua più grande passione.