FATHER AND SON e IL FIGLIO DELL’ALTRA: lo scambio di identità in due differenti culture

Titolo: Father and Son; Titolo originale: Soshite Chichi Ni Naru; Regia: Hirokazu Kore’eda; Interpreti: Masaharu Fukuyama, Machiko Ono, Yôko Maki, Lily Franky; Origine: Giappone; Anno: 2013; Durata: 120′

Ryota e Midori, genitori di Keita, vengono contattati dall’ospedale dove Midori ha partorito sei anni prima e ricevono una notizia sconvolgente. Keita non è loro figlio, c’è stato uno scambio di neonati anni addietro e il loro figlio naturale vive con un’altra famiglia. Le certezze granitiche su cui si basava l’intera vita di Ryota crollano e si trova dinnanzi a un interrogativo di enorme importanza su cosa significhi davvero essere padre.

Titolo: Il figlio dell’altra; Titolo originale: Le Fils de l’Autre; Regia: Lorraine Lévy.; Interpreti: Emmanuelle Devos, Pascal Elbé, Jules Sitruk, Mehdi Dehbi, Areen Omari; Origine: Francia; Anno: 2012; Durata: 105′

Joseph e Yacine sono nati lo stesso giorno in un ospedale di Haifa da due famiglie diverse. Durante un’evacuazione a causa dei raid aerei sulla città, i due neonati, che condividono un’unica incubatrice, vengono scambiati per errore e a una madre viene dato il figlio dell’altra. La scoperta avverrà 18 anni dopo quando Joseph durante un controllo medico militare viene a sapere di non avere lo stesso gruppo sanguigno dei genitori. La notizia scuoterà gli animi delle due famiglie.

 

Father and son è l’opera del regista nipponico Kore’eda che nel 2013 ha incantato Cannes vincendo il Premio della Giuria.

Soshite Chichi Ni Naru, questo il titolo originale, in giapponese significa “Poi diventerò padre”. Difficile trasporre il senso esatto dei sottili concetti espressi in questa affascinante lingua orientale, ma la traduzione letterale restituisce, a mio parere in misura maggiore del suo adattamento in lingua inglese, la tematica centrale del film: la paternità.

Keita e Ryusei, nati nello stesso giorno, nel medesimo ospedale, vengono scambiati nella culla. Dopo 6 anni da quel fatidico evento l’ospedale scopre l’errore e ne informa i genitori. Gli equilibri delle due famiglie crollano, l’interrogativo etico e umano si pone nella sua immensità: chi devono considerare davvero come loro figlio? Quello naturale che neanche conoscono ma è sangue del loro sangue oppure quello che non ha il loro corredo genetico ma il loro imprinting educazionale?

E l’amore dato in quei sei anni a colui che si credeva il figlio dove va a finire?

Le figure materne, remissive, restano in ombra, a loro tocca l’accusa e il senso di colpa di non essere riuscite a riconoscere, in quanto madri, che il neonato che gli era stato dato non era il loro bambino.
A decidere le sorti sono invece i padri.
Ryota e Yudai rappresentano due modi diametralmente opposti di esserlo.

Ryota è un inquadrato architetto, padre pressoché assente, che impone disciplina e rigore al suo unico figlio Keita; Yudai, di estrazione sociale e culturale differente, è un papà amorevole che lascia il caos governare nella casa dove vive con la moglie e i suoi 3 figli.

Ryota odia suo padre e ne rinnega la figura, ma allo stesso tempo gli somiglia, avendone ereditato l’incapacità di essere genitore. Vuole lo scambio, convinto che Ryusei avendo il suo DNA possa somigliargli maggiormente rispetto a Keita ed essere quindi più in gamba di lui.

[SPOILER] Keita, da bambino diligente, accetta la decisone paterna e si adatta, suo malgrado, alla nuova scombinata e allegra famiglia di Yudai e fa tenerezza osservare come non sia abituato a ricevere un abbraccio, mentre Ryusei, non abituato alle regole, rifiuta quelle che gli vengono imposte da Ryota inclusa quella, che regola non dovrebbe essere, di chiamarlo papà.[SPOILER]

Probabilmente, come dice la compagna del padre di Ryota: “Non è solo questione di sangue, quando si vive assieme, si finisce per somigliarsi.” Opposta è invece la convinzione del padre di Ryota che sostiene: “I figli finiscono per somigliarti anche se vivono altrove.”

Convinzione anche questa non errata se si pensa ad un altro interessante film che tratta lo scottante argomento dello scambio di neonati in ospedale calandolo però in una dimensione culturale e politica totalmente diversa: Il figlio dell’altra della regista Lorraine Lévy.

L’algida compostezza e i toni pacati dei genitori di Keita e Ryusei lasciano il posto agli sguardi diffidenti che si scambiano i genitori di Yacine e Joseph, ai loro toni di voce alti e alterati.

Non si tratta della perdita di un’identità solo filiale ma anche di ordine religioso e politico. Joseph, cresciuto in una famiglia ebrea di Tel Aviv ma scopertosi musulmano di nascita, chiede al rabbino se può considerarsi ancora ebreo. La risposta è spiazzante: lui non lo è più mentre Yacine, cresciuto come musulmano in Cisgiordania è ebreo a pieno diritto perché è solo una questione di sangue.

“Dovrò quindi scambiare la mia kippah (tipico copricapo ebraico, n.d.r.) con una cintura esplosiva?” si chiede sgomento.

Poi l’incredulità lascia spazio alla curiosità verso la vita dell’altro e al riconoscersi nella famiglia dell’altro.

Joseph vuole fare il cantante come suo padre naturale e Yacine ama Parigi dove studia per diventare medico, professione di sua madre che è per metà francese.

È ironia della sorte o attraverso il DNA anche delle note caratteriali passano da genitore a figlio?

Nel film di Lévy le madri sono complici come nella pellicola di Kore’eda e anch’esse si interrogano sul senso di colpa di non aver saputo “riconoscere” il proprio bambino, ma sono serene, accolgono l’altro figlio perché non sentono che qualcosa è stato loro tolto, come accade ai maschi di entrambi i film, anzi sanno, da madre, di avere un figlio in più.

Ed è sulla figura del figlio che la regista francese concentra il suo sguardo discreto: ebrea ma atea e non israeliana, non mira a un film politico ma a mostrare la maggiore apertura dei giovani, di questi due figli, maggiorenni, che decidono di avvicinarsi all’altra famiglia superando l’istintivo odio razziale, di scivolare uno nel modo di vivere dell’altro dal quale sono attratti e intimiditi insieme.

Si muovono tra i confini di una stessa terra, di una identità scissa passando attraverso il check point che come una lama solca un luogo massacrato da una guerra fratricida.

[SPOILER] Sarà lo stesso Yacine a definire lui e Joseph come fratelli quando osserva i loro volti riflessi in uno specchio e dice: “Ecco Isacco e Ismaele, i due figli di Abramo.”

La regista afferma di avere avuto difficoltà a decidere con quale scena chiudere il film e ha poi optato per una prima panoramica di 180° gradi sui tetti dove amava rifugiarsi a pensare Yacine e una seconda panoramica di 180° che chiude la scena e inquadra Joseph e non Yacine perché è come se l’uno fosse la metà dell’altro.[SPOILER]

 

 

About Ivana Mennella

Partenopea di nascita e spirito, ma milanese di adozione, si trasferisce all’ombra della bela Madunina nel 2007. A 10 anni voleva fare la regista. A 20 la traduttrice per sottotitolaggio e adattamento dialoghi. A 30 la sceneggiatrice. A 40 sa con certezza una sola cosa ossia che il cinema è ancora e resterà sempre la sua più grande passione.

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