22 July: Brividi e lancinanti crampi a stomaco e addome (credo dovuti alla mia saluberrima dieta da festival e non a qualità intrinseche delle proiezioni in questione) accompagnano una giornata decisamente dimenticabile, inaugurata da una sequenza d’azione godibile ma come tante altre e una successiva seconda parte processuale più che altro dormita, di cui ho pochi appunti e ancora meno memorie, tutti indicanti l’insufficienza delle ragioni per cui sentirsene in colpa. Uscirà su Netflix prima o poi, ma dovrei riuscire a farne a meno. “Rito abbreivi(k)ato”
Les Estivants: Qualche idea metatestuale ad elevarlo dallo status di classica commedia ibrida italiana francese (di livello buono, per quanto di scarso interesse artistico), ma le mie condizioni rendono indiscriminatamente atroci tutte le battute e le situazioni. Finalmente dopo poco più un’ora riesco ad addormentarmi (il film ne dura due e sono veramente troppe) e posso godermi gli ultimi quindici-venti minuti senza maldipancia (somatici e da rimorsi) e senza essermi perso granché neanche a livello di intrecci, saldo nell’impressione che Valeria Bruni Tedeschi non abbia saputo gestire al meglio gli equilibri fra le varie tensioni e nature del suo film. “Estivezzi”
The man who surprised everyone: Subodoro la parabola di redenzione/resurrezione per raggiungimento dell’androginia psichica (e – qui – non solo tale) e allora, confidando in una qualche EFfinità con il mio lavoro di variazioni astronomiche, arrischio un’esplorazione degli orizzonti darsenali. Rintronato da una mattina di sonno disordinato e non particolarmente colpito (archetipi o meno) dalla potenza dei significati e dall’efficacia drammaturgica del film, mi abbandono d nuovo sconfortato all’abbraccio narcolettico delle mie poltrone bordeaux slavato preferite. “But me”
Koiya koi nasuna koi (The mad fox): Esasperato ripiego senza approfondire sul primo Venezia Classici che trovo. L’Eiga no Kami mi assiste e ho modo di vedere il capolavoro di Tomu Uchida, un film prezioso ed epocale, un condensato di nipponicità stilistica e narrativa, ibrido polimorfico, multimediale, eclettico, plurale, anch’esso androgino (in una sequenza onirica). “Gagaku per le mie orecchie”
The Nightingale: Lo scandalo che non poteva mancare. Le premesse (di cui sono stato all’oscuro fino a proiezione ultimata) non erano buone: unico film in concorso diretto da una donna e palesemente animato da tematiche appropriate a questo suo status, l’aria solitamente gelida della Darsena freme di pregiudizi polarizzati prima, ribolle in applausi e risate imbarazza(n)ti durante, esplode infine intorno all’insulto indecoroso urlato da un giovane accreditato che ha avuto ed avrà (nella sua gravità ma anche insulsaggine) più risalto dell’altrimenti dimenticabile film stesso. Femminismo urlato e martire, scrittura manipolatoria e gratuita, granitico nelle (pressoché assenti) evoluzioni, compiaciuto nella violenza fine alla santificazione (della protagonista e del film). L’incontro potenzialmente fertile tra sean nos irlandese e vie dei canti aborigene è, ovviamente, del tutto collaterale. “Rinnegato (in quel momento un ga(e)ll(ic)o cantò)”
Living the Light – Robby Müller: Altro Venezia Classici taumaturgico, nonché conferma della mia predilezione documentaria per assolvere il delicato compito di chiudere la sestina. La maestria di Robby MuEller proviene da epoche preellefiche ma illumina così bene la prostrante oscurità di questa giornata, da meritarsi eccezionaellemente il titolo di Elliofannia quotidiana. “Fotosintesi (un punto in meno)”
(nella foto: no wonder (and (almost) nothing else))