Regia: Denis Villeneuve; Anno: 2013; Origine: USA; Durata: 153’
di Luca Mantovanelli
Due bambine, Anna Dover ed Eliza Birch, scompaiono.
Due sono le famiglie coinvolte e due i protagonisti, alla ricerca del colpevole (il detective Loki, e lo stesso padre di Anna, Keller).
Il sospettato – Alex – un ragazzo orfano che vive con la zia Holly, viene presto scagionato. Ma Keller non crede alla sua innocenza: accecato dalla disperazione, decide di sequestrarlo. Il mutismo di costui lo induce a torturarlo, giorno dopo giorno, riducendolo ad un oggetto di carne e sangue. Poi, la svolta: un nuovo uomo, Bob Taylor, viene condotto in commissariato. La vicenda pare avviarsi alla risoluzione, ma il nuovo indagato, per una sfortunata distrazione del detective, si toglie la vita. La peggiore sconfitta per Loki. L’uscita sua e di Keller dal labirinto sembra farsi un’ipotesi ancora più remota.
Prisoners è un thriller del canadese Denis Villeneuve (La donna che canta, 2010). Se in Night moves, di Kelly Reichardt (altro thriller di recente uscita) i protagonisti sono ricercati, in Prisoners inseguono. Nel primo film gli eventi sono diluiti nel tempo e l’atmosfera è drammaticamente rarefatta; nel secondo, invece, c’è un susseguirsi più denso di colpi di scena. In entrambi, le vicende sono avvolte da un cielo nero, cupissimo.
Vi sono poi degli elementi in Prisoners che fanno pensare a Il Fuggitivo (Andrew Davis, 1993). Uno di questi, il rapporto simbiotico fra la zia Holly (Melissa Leo), e Alex, interpretato da Paul Dano. Ma Villeneuve vola ben oltre l’effettismo meccanico di Andrew Davis: c’è più spazio per la descrizione delle atmosfere emotive e per il nesso tra trauma infantile e personalità criminale. E dove c’è trauma, ci sono chiusura, ripetizione ossessiva, inceppamento.
Anche rimorso, senso di colpa e fragilità umana svolgono in Prisoners un ruolo chiave, così come la lotta fra buona e cattiva religione e il tema del doppio e dello sdoppiamento. Il fatto che la ricerca di giustizia muova Keller (Hugh Jackman) ad agire in maniera indipendente rispetto al detective, rimarca lo stereotipo americano della vendetta privata, e solleva una volta di più la questione della legittimità o meno di tale scelta. Vincente l’idea registica di non rendere i ruoli dell’uno e dell’altro del tutto distinti, suggerendo che anche Keller possa essere capace di svolgere la parte del detective, e Loki possa diventare un po’ il padre di Anna (Erin Gerasimovich). Tuttavia, l’uno non ha abbastanza dell’altro per riuscire a sostituirsi del tutto.
Prisoners, pur difettoso di un inizio parecchio in sordina, acquista man mano vigore, fino a sfociare in un lento e ben dosato giro di vite di forte impatto – dove emerge crudamente e in modo inequivocabile il volto dei colpevoli – e in un finale, in cui si intravedono due possibili strade.
Un film riuscito, dove l’elemento perturbante (sublime “l’autismo” dei due indagati, resi come automi dall’animo impenetrabile) fiancheggia in modo esaltante quello dell’azione.
Tuttavia, alcune riserve. A cominciare dai personaggi protagonisti, confezionati più in senso televisivo che cinematografico (la stessa sensazione provata con Night moves). Non tutto nel film, poi, risulta avere dei contorni netti (il passato di alcuni personaggi, i loro traumi); questo forse, non sempre dovuto a deliberate scelte artistiche, ma ad un non perfetto controllo della sceneggiatura. Peccato poi che, verso la conclusione, Villeneuve abbia deciso di strafare, sfiorando il genere fantasy (il tema del labirinto, i serpenti), snaturando per eccesso di ambizione i lineamenti autentici del film. Scontato il nesso fra il tòpos del labirinto (proposto nel film in diverse varianti, luoghi di segregazione fisici o mentali) e il titolo, Prisoners, appunto. Titolo che allude, in primis, al sequestro delle due bimbe, vittime di una mente criminale perversa, e, secondariamente, ad Alex, segregato da Keller. Ma, in fondo, “prigionieri” in questa storia sono anche i personaggi nei confronti del Fato, del loro “autismo” psichico, della paura, di reazioni emotive irrazionali, della cecità di fronte agli eventi. E, quasi alludendo al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, quanto più Keller sevizia il ragazzo e cerca di estrargli quella parola che potrebbe illuminarlo sulla scomparsa di sua figlia, tanto più lui stesso, in senso morale, diventa un mostro, a causa di quella violenza disumana.
Eccellenti Paul Dano e David Dastmalchian (quest’ultimo, nei panni del secondo indagato), e così pure Melissa Leo. Il lato macabro e le scene più allucinate devono molto al genio di Roger Deakins, che con la sua fotografia è riuscito a conferire un senso pittorico al film; così si può dire anche di Patrice Vermette per quanto riguarda la scenografia e di Carol Rasheed per il trucco.
Molto valida la musica dell’islandese Johann Johannsson, in special modo il tema principale che ricorre più volte, che, quasi come un silenzioso sguardo sul devastato e desolato animo umano dei personaggi, ci ha ricordato il tema creato dai Popol Vuh per Aguirre (1972) di Werner Herzog.
di Alessandra Pirisi
Il giorno del Ringraziamento, in una cittadina della provincia di Boston, due bambine di sei e sette anni vengono rapite mentre le loro famiglie sono a pranzo insieme. Il detective Loki è chiamato a dirigere le indagini e quasi subito arresta Alex Jones, un giovane con disturbi mentali, il cui camper era stato visto nelle vicinanze del posto in cui sono sparite le bambine. Non avendo prove a sufficienza per incriminarlo, Loki rilascia Alex, ma Keller Dover, padre di una della bambine rapite, lo sequestra, deciso a torturarlo fino a quando non confesserà.
Un’inquadratura fissa, tagliata verticalmente dai tronchi di alberi tra i quali si intravede un cervo, mentre una voce fuoricampo recita il “Padre nostro”. A poco a poco il campo si allarga fino a comprendere due figure di spalle, con i cappucci delle felpe a coprire la testa e in mano due fucili. Terminata la preghiera, uno dei due spara e uccide il cervo. L’inquadratura cambia e mostra il viso dell’uomo che sorride in segno di approvazione verso il ragazzo che ha sparato.
Questa la sequenza iniziale di Prisoners, una sequenza particolarmente importante, in quanto è in essa che vengono poste le premesse da cui parte il film, del quale viene così riassunta simbolicamente la storia: l’uccisione del cervo anticipa sia il rapimento delle bambine, sia il sequestro di Alex da parte di Keller, mentre la preghiera evidenzia l’importanza della religione. Fin da subito, inoltre, l’attenzione si concentra sul personaggio interpretato da Hugh Jackman, personaggio centrale del film insieme a quello del detective Loki, interpretato da Jake Gyllenhaal. Keller e Loki incarnano il tema principale del film e sono allo stesso tempo speculari e contrapposti: Keller è il padre di famiglia e l’uomo di fede, Loki è il rappresentante della legge, garante dell’ordine e della giustizia. Entrambi, però, agiscono, volontariamente o meno, in contrasto al loro ruolo, mostrandosi non all’altezza di esso.
Così Keller, pur di ritrovare la figlia, prevarica la legge e sequestra Alex, ponendosi in questo modo in contrapposizione non solo con la giustizia degli uomini, ma anche con i suoi stessi valori e con le sue convinzioni di credente. Fin dall’inizio, infatti, Keller si caratterizza per essere continuamente intento alla preghiera e all’invocazione di Dio: un fervore però smentito dal suo agire, in contrasto con gli insegnamenti della religione. Incoerente rispetto al proprio status di uomo di fede, Keller non è all’altezza neppure del proprio ruolo di padre protettore e custode della famiglia, come del resto gli rinfaccerà la moglie in seguito al rapimento della figlia. È proprio questa accusa che lo convince definitivamente a sequestrare Alex, un gesto attraverso il quale si ritrova a ripetere esattamente la stessa azione che ha subito e che vorrebbe punire, e che ancora di più conferma la sua inadeguatezza. Sottolineata inoltre dal fatto che Alex potrebbe essere innocente: lo suggeriscono anche i suoi problemi psichici, elemento che lo rende debole e vulnerabile come un bambino, quindi come le bambine rapite.
Parallelo e speculare a Keller è il personaggio del detective Loki (a lui legato, anche dal punto di vista stilistico e visivo, dalla croce, tatuata sulla mano del detective e appesa al collo di Keller), protagonista dell’indagine vera e propria. La contrapposizione, presente nella trama, tra i due personaggi non dovrebbe esserci, in quanto entrambi condividono lo stesso obiettivo e sono rappresentati come accomunati dalla stessa inadeguatezza rispetto al proprio ruolo. Loki appare come l’antitesi del detective: tatuaggi in vista, taglio di capelli improbabile, camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, ma che gli sta stretta e quasi lo soffoca, un aspetto che corrisponde all’inefficacia delle sue azioni. Infatti, se all’inizio delle indagini sembra agire in modo appropriato, trovando immediatamente Alex e facendo collegamenti con casi di rapimento simili, ben presto la situazione gli sfugge di mano: chi riesce ad avere informazioni da Alex non è lui nonostante un lungo interrogatorio, ma Keller, quando aggredisce il ragazzo mentre viene rilasciato; fino a poco prima della fine Loki non capisce che è Keller a tenere sotto sequestro Alex; continuamente si fa sfuggire la possibilità di avere nuove informazioni o non riesce a individuare quelle che avrebbe già a disposizione; infine, arriverà alla scoperta del colpevole solo per puro caso.
Questa inadeguatezza dei due personaggi diventa simbolo di una società, quella occidentale contemporanea, che non riesce ad essere all’altezza del ruolo che si è scelta, non riesce a far corrispondere le azioni con i valori su cui dovrebbe basarsi. All’interno di essa gli uomini sono allo sbando, persi, prigionieri (come esplicita il titolo del film) di un labirinto in cui non hanno più coordinate e direzioni – non a caso uno degli elementi che ricorrono più spesso nella storia è appunto il labirinto, simbolo anche della follia, della perdita della ragione.
A livello formale questo pessimismo sulla condizione odierna dell’uomo è espresso da spazi spesso stretti, angusti o fatiscenti, per nulla confortevoli e rassicuranti, mentre il cielo è sempre nuvoloso, si alternano giorni di pioggia e neve a notti in cui l’unica luce è quella artificiale, attraverso cui l’uomo cerca di trovare una speranza che deve crearsi da solo.
Dal punto di vista delle premesse il film si presenta come molto interessante, propone temi profondi e importanti, che nel primo tempo sono adeguatamente rappresentati sia attraverso i personaggi che attraverso la forma e lo stile, all’interno di una storia coinvolgente. Tuttavia, nella seconda parte, soprattutto avvicinandosi al finale e nella conclusione stessa, queste premesse vengono disattese. Se inizialmente il film riusciva a mantenere un equilibrio tra le riflessioni tematiche e l’intreccio della storia, quando invece la risoluzione del caso si complica l’attenzione viene sbilanciata a favore della trama. Sembra che si sia voluto a tutti i costi ricercare una soluzione originale della storia, al punto che l’intreccio è inutilmente complicato da elementi che hanno il solo fine di aumentare la tensione e sviare lo spettatore (ad esempio l’inserimento di un secondo sospettato), per giungere ad una conclusione che, paragonata ai temi e alle riflessioni poste all’inizio, risulta invece banale e deludente.
Insomma, il regista mostra la stessa inadeguatezza che imputa ai suoi personaggi. Ma ciò che rende il film non del tutto riuscito e deludente non è il finale in sé, quanto la consapevolezza che le potenzialità per una risposta conclusiva più interessante e completa c’erano: semplicemente non si è avuto il coraggio di sfruttarle. O forse, ancora una volta, si è sottovalutato lo spettatore e la sua capacità di seguire un discorso che fosse impegnativo e andasse al di là del puro intrattenimento.
About Alessandra Pirisi
Tra i fondatori di Cinemagazzino, ne è stata redattrice e collaboratrice fino al dicembre 2018. Laureata all’Università di Bologna in Lettere moderne. I suoi interessi vertono su letteratura (suo primo amore), teatro, danza, cinema, musica e Bruce Springsteen. Si interessa – molto – a serie tv, in particolar modo poliziesche. Ha un'ossessione totalizzante per il cinema indiano.