LA FAVORITA

LA FAVORITA

Titolo: La Favorita; Titolo originale: The Favourite; Regia: Yorgos Lanthimos; Interpreti: Olivia Colman, Emma Stone, Rachel Weisz, Nicholas Hoult; Origine: Grecia; Anno: 2018; Durata: 120’

La posizione di potere di Lady Sarah, che (non troppo) segretamente decide le sorti dell’Inghilterra di inizio ‘700 manovrando la sovrana Queen Anne – capricciosa, infantile, imbelle e malata di gotta e d’amore –, viene insidiata dall’arrivo a corte della cugina Abigail, subdola nobile decaduta determinata a ritornare ai fasti di un tempo.

Ci voleva la mano (calcatamente) elegante e umoristica del sempre meno greco ma incrollabilmente audace e stilisticamente ri(/de)finito Yorgos Lanthimos, per portare sullo schermo l’effervescente sceneggiatura di Davis e McNamara (operazione nuova per il regista, che solitamente si scrive i propri film), una giostra di individualismi e apparenze (imbellettate e imparruccate), gabbie rigorose e redini dominatrici, im(/op)posizioni e caratteri forti, grottesco funambolico e clinica accuratezza storico-oleografica, letami olezzosi e delicate aragoste (The Lobster docet).

L’impeccabile impianto formale architettato dal regista (nonché produttore), forse meno ardito rispetto alle opere precedenti – e più divisive –, si dimostra infatti fin dai titoli attentissimo a restituire tutti gli sgargianti contrasti di questo ordito, e proprio dai titoli vale la pena es-ordire: ovviamente bianchi su fondo nero, sono intavolati rispettando una giustificazione e ripartizione netta, a tradurre conformità ferrea alla regola ma anche inflazione bulimica di ogni personalità coinvolta, che lotta per occupare tutto lo spazio a disposizione con una bolla di apparenza noncurante della sostanza (monoverbo o frase, principale o subordinata, arguzia o sentenza, maggioranza o opposizione, nobildonna o sguattera, la riga è sempre riempita del tutto). Una falsa democrazia di un neonato parlamento animato dagli interessi dei singoli (corse di oche e lapidazioni a mezzo agrumi assolute priorità), un fantoccio che dietro la maschera di sottomissione nasconde vari e opposti strattoni alla mano dell’apatica governante e che tuttavia fantoccio rimane, in balìa degli equivalenti strattoni di due donne che hanno saputo giocarsi meglio le proprie carte.

Così – la locandina non lascia dubbi a proposito – i fili di perle che la Mistress of the Robes Sarah porge alla regina sono ovviamente fili di marionetta, di fragile bambola di porcellana i cui occhi possono essere facilmente sostituiti e traviati da Abigail. Una regina in trappola, costretta in busti e tutori, ossessivamente dedita alle gabbie dei conigli e alle catene del ricordo e facilmente manovrabile sul suo trono a rotelle: nell’unico istante di autonoma scelta tra i Whig di Sarah e i Tory di Abigail, avvertirà la propria mancanza di spina dorsale e rovinerà a terra. Ingabbiato come il suo regale fulcro è anche il film stesso, suddiviso in otto regolari e quadrati passi di danza, reinventati dalle due rivali – in modo decisamente esuberante e poco rispettoso della socialità delle country dance, a vantaggio tutto dell’esibizione della propria personalità creativa e carismatica – e quindi titolati con loro battute, proiettili esplosivi nei moschetti biforcuti delle loro affilatissime lingue.

Sono Sarah e Abigail infatti le uniche a galoppare tangenti e a tratti al di fuori della gabbia, a piegare le maglie delle squadrature greenawayiane e dei totali hogarthiani con i loro grandangoli fagocitanti, occupando prepotentemente il centro gonfiato del fotogramma e schiacciando tutto il resto ai lati (si veda la panoramica grottesca con cui si segue l’arrivo di Abigail a palazzo, o la retta del corridoio che si incurva mentre ella blandisce la regina, piegandola al suo volere), distorcendo a piacimento la realtà maschia di sopraffazione che le vorrebbe meri strumenti nelle mani del potere politico e modellandola sulle più sottili curve di crinolina di una femminilità sicura e indipendente, oppressa ma infine vincente.

L’anomala cronogeolocalizzazione precisa dell’altrimenti sempre metafisico Lanthimos viene trascesa e universalizzata da uno Schumann anacronistico (il tocco kubrickiano irrinunciabile, pudica alternativa al celebre Trio di Schubert), reinserendo questo mirabile duello (per interposto piccione o sovrano) – in un certo (sempre lyndoniano) senso parricida – nell’alveo di un’indagine sulle fondamenta (anche e – azzardiamo – soprattutto linguistiche) delle dinamiche di potere, che il regista porta avanti fin dagli esordi.

Voto: 4 / 5

About Carlo Gandolfi

Colui che scruta, cromaveglie di luce, onirosuoni.

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