Regia: Denis Villeneuve; Interpreti: Benicio Del Toro, Emily Blunt, Josh Brolin, Jon Bernthal, Jeffrey Donovan; Origine: USA; Anno: 2015; Durata: 121′
Una meticolosa agente di polizia viene catapultata tra i giochi di potere e gli orrori della lotta ai cartelli messicani del narcotraffico.
Il precedente Prisoners già ci aveva messo in allerta: produzione hollywoodiana con tutte le implicazioni del caso, dai volti noti alla fotografia di lusso (il rodato coeniano Roger Deakins, nominato agli Oscar), sacrificava – tristemente nota costante – al bene dell’industria, l’arte del talentuoso canadese Denis Villeneuve, alla prima prova a servizio delle major dopo aver consegnato al plauso dei festival e delle sale opere drammaticamente intense e figurativamente potenti come il cubista Polytechnique, l’agghiacciante Maëlstrom, per finire con il disturbato Enemy. Come la macchina dei sogni comanda, i tratti più aspri e significativamente riconoscibili della poetica del cineasta venivano in Prisoners levigati, a favore di una messinscena più convenzionale e vendibile (la pur solida e piacevole sceneggiatura di Guzikowski, non per niente messa a decantare per qualche anno nell’hollywoodiana Black List dei progetti da realizzare, non si eleva dal classico giallo di provincia, offrendo pochi spunti di riflessione e infoltendo l’incensibile schiera di suoi consimili che, dall’hard boiled a CSI, soddisfa da sempre le spensierate voglie di crimine del pubblico di tutto il mondo).
Quello che però in Prisoners era in nuce e non precludeva, a un livello superficiale di fruizione, la godibilità del prodotto, impeccabile (tutto sommato) per quanto asettico, in Sicario diventa cifra pesante e imperdonabile, complice (tanto per cambiare) una sceneggiatura stavolta davvero insulsa, con i suoi granitici protagonisti del tutto fedeli ai loro archetipi (il rinnegato misterioso con una vendetta da compiere, la poliziotta tutta d’un pezzo vittima di soprusi e misoginia) e la classica manciata di dimenticabili comprimari, tanto inutili da non potergli nemmeno imputare il colpevole inserimento al solo fine di portare avanti la trama (il collega nero su tutti), a inscenare la parabola stantia dell’agente integerrimo e umano contro la CIA corrotta e spietata (si veda, per sano masochismo, il simile Good Kill), ponendo importanti questioni morali del calibro di “il fine giustifica i mezzi?”.
Si aggiunga una regia anonima e ondivaga, che non sa se giocare sul confronto paladina/marcio, sulla tensione dell’azione o sull’opposizione campi lunghi di naturale bellezza/dettagli macabri e affastella tutto disordinatamente, lasciandosi sfuggire di mano le dinamiche collaterali (la sostanziale irrilevanza a conti fatti della parte del poliziotto messicano padre di famiglia, inizialmente suggerita dal montaggio, trascurata in seguito e infine sacrificata senza colpo ferire), si condisca con la giusta violenza all’acqua di rose, un tocco di gore sdoganatissimo, un po’ di facile retorica, una partitura ambient anonimamente funzionale e si avrà il polso di un perfetto prodotto medio. Che stavolta non intrattiene nemmeno, perché sono poche le sequenze che davvero convincono, la noia da déja-vu e da abbondante e futile annacquamento dell’intreccio la fa da padrone, sostenuta da performance attoriali al limite del fastidioso, tra il solito Josh Brolin sopra le righe e il (ri)bollito Benicio Del Toro glaciale e inespressivo, e, per la gioia degli spettatori italiani, da un doppiaggio imbarazzante a cesellare il tutto. Deakins ritorna diligentemente per confezionare un’immagine adeguatamente polverosa e giallastra, che scade nell’infrarosso videoludico in una mai coinvolgente caccia notturna in pseudo soggettiva, ma di certo non passerà alla storia per questo. Un’altra firma interessante fagocitata dal sistema. Peccato.
