Titolo: Human; Regia: Yann Arthus-Bertrand; Anno: 2015; Origine: Francia; Durata: 188’
Colossale progetto documentaristico su scala mondiale, a Human vanno riconosciuti senz’altro diversi meriti. L’idea in sé è semplicissima e inflazionata (per non dire abusata): si cerca una definizione di “umano” per induzione, facendo confrontare individualità provenienti da ogni angolo del globo sui medesimi temi e con le stesse domande, da dialoghi sui massimi sistemi (l’amore, la felicità, la violenza, la guerra, il rapporto uomo/donna, l’omosessualità, il lavoro etc,), a personalissime storie di vita vissuta.
Questa indagine che si sposta continuamente dal particolare all’universale è resa intelligentemente alternando interviste dove il soggetto si offre completamente alla macchina da presa riempiendo con il busto l’intero fotogramma e il regista (o chi per lui, vista la mole e la propagazione delle forze in gioco) non interviene mai, né con movimenti né con domande, a campi lunghissimi di superba qualità fotografica e bellezza sconvolgente di scenari naturali, grandi masse umane, città e paesi (un po’ à la Koyanisqqatsi – ma meno suggestivo sul piano musicale, di importanza sempre capitale in testi del genere).
L’impatto emotivo è a tratti forte, nella loro discrezione le interviste rivelano tratti e storie che un sapiente montaggio (sei montatori a tempo pieno per più di un anno) seleziona appositamente per lasciare il segno, ma il format, mancando di idee cinematograficamente interessanti, alla lunga (190′ la versione da festival) stanca. L’operazione ha una rilevanza antropologica relativa e anche gli intenti politici proclamati a gran voce dal regista si guardano bene dal proporre voci troppo fuori dal coro e si rifugiano in un politicamente corretto e un francescanesimo francamente un po’ stantii. Cartoline eccezionali, ma la rivoluzione è altrove.
