
20.000SpeciediApi (t.o.20000 especies de abejas) della regista spagnola #EstebalizUrresolaSolaguren, qui anche sceneggiatrice al suo primo lungometraggio, narra la storia di Coco’, un bambino di otto anni interpretato dalla strepitosa #SofiaOtero, #OrsoOro al #festival di #Berlino per la #migliore #interpretazione #femminile, che non si riconosce nel suo nome maschile Aitor, nel suo corpo, nel ruolo di genere che la società gli attribuisce. Nel corso dell’estate che trascorre insieme con sua madre Ane #PatriciaLòpezArnaiz a casa della nonna nella campagna basca, con i pochi strumenti della sua età, in primis una profonda #sensibilità, in un dialogo con se’ stessa, con la #natura e con chi gli dimostrerà #accettazione, cercherà di comporre la sua personale ‘disforia’, fino a scegliere il suo nome, Lucia, e con esso la sua #identità. Va precisato che, fino a poco tempo fa, la #disforiadigenere era considerata una malattia psichica, anziché un ‘elemento identificativo da rivendicare’ nell’accezione che ne da’ #PaulBPreciado, il #filosofo attivista #trans spagnolo. La regista, che ha scelto di girare il film in lingua basca che prevede solo il genere neutro, ha svolto un profondo lavoro di #documentazione confrontandosi con famiglie con bambini dai 3 ai 9 anni che hanno manifestato lo stesso percorso di Aitor/Coco’/Lucia, lavoro che le ha permesso di raccontare, in uno stile che ricorda #Alcarras di #CarlaSimon, in maniera #delicata, #poetica e non giudicante un #percorso #ontologico affrontato ad una così giovane età e reso impegnativo dalle pressioni giudicanti della dominante vetero #cultura #binaria, dove il normale è normativo e tutto ciò che se ne discosta è mostruoso. Natura/cultura, sesso/genere sono i principi che vengono trattati per arrivare alla conclusione che è il #desiderio di chi vogliamo essere a costruire un corpo ed un ruolo sociale. Film prezioso!
COUP DE CHANCE

Coup de Chance (Un colpo di fortuna) di Woody Allen, giunto alla sua 50° opera (la prima girata integralmente in francese) ed all’ennesima collaborazione con Vittorio Storaro direttore della fotografia (splendida!), narra la storia di un triangolo amoroso. La bella e volubile Fanny Lou de Laage è felicemente sposata con Jean Melvile Poupaud ricco faccendiere parigino che la esibisce come un trofeo, quando un giorno per caso incontra Alain Niels Schneider, un suo ex amico di scuola da sempre innamorato di lei. Inizia tra loro una relazione che Jean scopre e farà in modo di far cessare, all’insaputa di Fanny che crederà ad un abbandono da parte di Alain, suscitando però i sospetti di sua madre Camille Valerie Lemercier, appassionata di gialli, con un finale ribaltamento di esiti e posizioni. Si dice che i registi/autori girino sempre lo stesso film, portati ad una continua elaborazione/rappresentazione delle proprie ossessioni. Nel caso di Woody Allen trattasi del ruolo della fatalità rispetto all’esistenza umana, un nonsense assoluto governato dal caso, dal ‘colpo di fortuna’ appunto. Tematica questa presente in (quasi) tutti i suoi film, che ha raggiunto la perfezione sotto ogni punto di vista in Match Point del quale Coup de Chance è la copia, ben realizzata, ma sbiadita. Solo apparentemente cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Eppure gli attori sono credibili, Parigi è ripresa impeccabilmente, allure ed intrecci ci sono, la mano registica è quella (notevole la ripresa iniziale in piano sequenza). In realtà un film, come opera artistica, sfugge ad una mera operazione matematica: l’alchimia che si sprigiona da una storia raccontata sullo schermo di certo non deriva dall’applicazione di regole di composizione, ma da un quid inspiegabile chiamato ispirazione, quella sincera e sentita manifestazione espressiva che latita quando la tecnica è utilizzata in maniera furba e poco partecipata. Piacevole, ma spento.
IL MALE NON ESISTE

Il male non esiste (t.o. Aku wa Sonzai Shinai) del regista giapponese Ryusuke Hamaguchi (Leone Argento per la migliore regia all’ultimo Festival di Venezia) ,qui autore anche del soggetto e della sceneggiatura, narra una storia ecologista nell’ottica della cultura shintoista. In un piccola comunità montana poco distante da Tokyo vive Takumi, Hitoshi Omika, con sua figlia Hana, Ryo Nishikawa. Il ritmo e l’equilibrio naturale di questo angolo preservato dall’inquinamento vengono minacciati quando una società decide di realizzare nella zona un gampling, cioè un campeggio di lusso, che minaccia gravemente una sorgente naturale e tutto l’ecosistema correlato. Inizia così un confronto tra due diversi modi di concepire il vivere: quello ecologista della comunità e quello consumistico capitalista della società imprenditrice in una contrapposizione che sembra priva di soluzione. In realtà l’opera di Hamaguchi non va letta solo come un racconto ambientalista, impregnata com’è della cultura giapponese shintoista per la quale la natura e ogni fenomeno naturale sono manifestazioni di forze divine potenzialmente presenti in ogni cosa, talora benevole, talora capricciose o malevole. Ecco quindi che in questa ottica il film dispiega la sua forza narrativa misteriosa, profonda ed ambigua, specie nel finale, non riducibile ad un ragionamento logico e, come tale, attrattiva grazie ad un modo di riprendere non ordinario (i 5 minuti iniziali ne sono un esempio) per consegnarci un messaggio, che resta enigmatico, sulla meditazione del delicato rapporto tra animale umano e paesaggio. Film non convenzionale, necessariamente non facile.
THE OLD OAK

The Old Oak è ‘ultima opera del regista britannico Ken Loach (sceneggiatura del sodale Paul Laverty),maestro indiscusso nel rappresentare le classi più povere di uno dei paesi più ricchi del mondo dove il welfare è sempre più assente (I Daniel Blake) e dove i nuovi contratti di lavoro pseudo autonomi nascondono vere e proprie forme di oppressione (Sorry We Missed You). Questa volta il tema è quello dello scontro con l’intruso: da un lato gli inglesi ex lavoratori delle miniere decimati dalla politica della Tatcher e dall’altro i profughi siriani in fuga dalla guerra. Al centro di questi due poli c’è TJ Ballatyne, Dave Turner (perfetto!) con la sua cagnolina Marra, un uomo mite che, dall’incontro con Yara, Ebla Mari, profuga con la passione per la fotografia (filo conduttore del film), trae la spinta per riaprirsi all’altro inteso come collettività di cui si è parte. Se lo sguardo è potere, è nostra la scelta sul come ritrarre e quindi vedere/vivere le cose: come opposizione, incitando all’odio o come unione ed integrazione, due opposte filosofie di vita rappresentate da altrettante fotografie che interpuntano ed integrano armoniosamente il racconto. Loach indica la via e si/ci concede la speranza. Film meno incisivo e corrosivo dei suoi precedenti, ma a volte fa bene crederci.
C’E’ ANCORA DOMANI

C’è ancora domani, film di esordio di Paola Cortellesi, qui anche sceneggiatrice, narra la storia di Delia, interpretata dalla stessa Cortellesi, donna, moglie e madre nella Roma del secondo dopoguerra, alla vigilia delle votazioni per il referendum tra Repubblica e Monarchia il 2 e 3 giugno del 1946 quando le donne per la prima volta in Italia esercitarono il diritto di voto (lo fecero in 13 milioni!). Delia è l’emblema della donna svilita, violata e maltrattata dall’imperante sistema patriarcale: dal marito Ivano Valerio Mastandrea che la ‘mena’ di prima mattina, dal suocero Ottorino Giorgio Colangeli che la tratta come una serva, dal datore di lavoro che la sottopaga. Questo inferno quotidiano Delia lo attraversa lieve e rassegnata, riponendo le sue speranze nella figlia Marcella Romana Maggiora Vergano prossima alle nozze con un buon partito. Il riscatto avverrà, ma in maniera diversa da quanto previsto, e coinvolgerà entrambe, madre e figlia, vecchia e nuova generazione, in una nuova prospettiva, femminista, della quale il diritto di voto è lucida espressione. Il film, rigorosamente in b/n, nonostante l’ ipercitazione sia rispetto a film precedenti (su tutti Bellissima di Luchino Visconti e Una Giornata Particolare di Ettore Scola), sia rispetto alle scelte musicali non solo coeve (Sofia Coppola docet), nonostante qualche fase di stallo/ripetitività narrativa e l’onnipresenza del romanesco, ha comunque una sua cifra comunicativa efficace, anche grazie alla recitazione della stessa Cortellesi, ironica e partecipata. Ma soprattutto C’è Ancora Domani ha il grande indubitabile merito di essere un film politico, trattando temi scomodi (femminismo, solidarietà, lotta al patriarcato, maltrattamenti in famiglia e femminicidio) che arrivano agli spettatori, coinvolgendoli. Forse l’unico limite può essere il rischio assolutorio e di alleggerimento della coscienza collettiva (confermato dall’alto numero di pubblico): contestualizzando la storia, si è portati a pensare che la violenza di genere faccia parte del passato, che ormai le donne sono ‘emancipate’, mentre è ancora molto attuale, come i numeri dei femminicidi, delle violenze sessuali e del gender gap in Italia drammaticamente confermano. In ogni caso, buona la prima!
ORLANDO, MA BIOGRAPHIE POLITIQUE

Orlando Ma Biographie Politique è il doc di esordio firmato Paul B Preciado, filosofo spagnolo e attivista trans-sessuale, presentato allo scorso festival di Berlino dove ha vinto il Teddy Award, premio per la migliore opera con tematiche LGBT+. Partendo dal romanzo di VirginiaWoolf, Orlando, primo esempio di personaggio transgender, il regista ne ripropone il testo e la storia attualizzandoli tramite l’intersezione con testimonianze dirette di 25 persone trans e non binarie di età compresa tra 8 e 70 anni. Raccordo tra le varie testimonianze è la voce fuori campo dello stesso Preciado che riporta le sue riflessioni su società petrosessorazziale, binarismo di stato, patriarcato e violazione di diritti, identità sesso e genere, cure ormonali e psicologiche obbligatorie, percorso di transizione, esplorazione e ricerca di sé. Parlare di doc in questo caso è riduttivo giacché la cifra poetica è altissima, a partire dal passaggio di testimone tra i protagonisti, tutti altrettanti Orlando, rappresentato da una gorgiera di moda nel 1600. Sono proprio loro a conquistarci e a comunicarci, raccontando i relativi percorsi personali, la bellezza, la delicatezza, la forza, le difficoltà di cercare ed essere se’ stessi al di fuori di schemi imposti. Un documento politico irrinunciabile e fondamentale, prezioso strumento per aprire la mente ed il cuore. In sala a gennaio 2024.
ANATOMIA DI UNA CADUTA

Anatomia di una caduta (t.o. Anatomie d’une chute) della regista francese Justine Triet, qui anche autrice della sceneggiatura originale insieme ad Arthur Harari, vincitore della Palma Oro come miglior film allo scorso festival di Cannes, narra la storia di Sandra, una fenomenale Sandra Huller, la quale viene accusata della morte del marito Samuel Samuel Theis. In uno schema da giallo Hitchcock style e legal movie, si ricostruisce l’evento tra ipotesi accusatoria di omicidio o assolutoria di suicidio. In realtà il film rappresenta una ulteriore, incisiva rappresentazione dei ruoli di genere e dei pregiudizi ad essi correlati che disseziona minuziosamente, come in anatomia appunto si usa. Chiave di lettura in tal senso è la incisiva sequenza della lite tra Sandra e Samuel (palpabile l’ispirazione a Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman) avvenuta il giorno precedente la morte. Cosa succede se, ribaltando i ruoli, nella coppia è la donna ad avere ‘successo’ esistenziale, se non è più lei a sacrificare tempo e progetti a favore del partner e della famiglia, se risulta centrata e soprattutto senza sensi di colpa per essere ciò che vuole essere? Questa centratura finisce per uccidere l’uomo (e quindi la coppia) o è questi che, non adeguandosi al cambiamento inarrestabile, si suicida decretando la sua stessa fine come espressione di cultura patriarcale? E quanti sono i nostri pregiudizi su una donna che non chiede scusa per scegliere se stessa? La consideriamo automaticamente unica colpevole di quanto succede?(tema molto ben rappresentato anche in Saint Omer di Alice Diop). In questo impasse decisivo è l’intervento di Daniel, Milo Machado Graner ,figlio undicenne ipovedente della coppia, emblema di quella ‘alleanza tra la donna e il giovane’ teorizzata da Carla Lonzi. Justine Triet firma un’opera incisiva, delineando con il personaggio di Sandra la direzione di libera individuazione verso cui tendere, sempre, tutte. Complesso, denso, imperdibile.
SICK OF MYSELF

Sick of myself (t.o.Syk pike, letteralmente ‘ragazza malata’) del giovane regista norvegese Kristoffer Brogli, qui anche sceneggiatore, è una storia tra commedia e body horror, ma soprattutto è un atto di denuncia sul narcisismo imperante dei nostri tempi. Signe, interpretata dalla brava Kristine Kujath Thorp, è una 30enne di Oslo, lavora in una caffetteria ed è fidanzata con Thomas Erik Saeter, artista rampante ed egoriferito. Quando questi inizia ad avere successo, Signe si sente messa da parte e, per riportare l’attenzione su di sé, decide di assumere un potente farmaco sedativo i cui effetti collaterali vanno dalle eruzioni cutanee più o meno gravi fino alla morte. Il gioco funziona, ma crea dipendenza, per cui ad ogni passo avanti nella carriera di Thomas corrisponde un aumento della dose del farmaco e, quindi, degli effetti devastanti e visibili sul corpo e sul viso di Signe, così come delle attenzioni a lei riservate che arrivano puntuali. Un articolo sul giornale vale bene un ricovero in codice rosso, fino a diventare, ormai ridotta ad un mostro, modella di una catena di abbigliamento inclusiva. Solo l’arresto del suo fidanzato, termine assoluto di paragone, porrà fine a questo gioco al massacro dagli effetti irreversibili. È vero che esistono, da tempi non recenti, reali psicopatologie dirette ad attirare l’attenzione e l’approvazione altrui, ma in un’epoca basata su like e commenti positivi ricevuti, sul bisogno esibizionistico e sul riconoscimento esterno (io sono in quanto piaccio agli altri) il disturbo narcisistico di personalità è in agguato un po’ per tutti. Quel che per il regista rileva è raccontare quanto tutto ciò che ci sposti al di fuori di noi e ci faccia vivere a misura dell’altro, porti ad una autodistruzione del se’. Tra Cronenberg (Crimes of the future) e Ostlund (TheSquare). Interessante, molto.
LA MOGLIE DI TCHAIKOVSKY

La moglie di Tchaikovsky (t.o.Žena Čajkovskogo) del regista russo Kirill Serebrennikov, qui anche autore della sceneggiatura, narra la vera storia di Antonina Miljukova, Alena Michajlova (bravissima interprete), giovane sposa del grande compositore russo Pëtr Čajkovskij , Odin Bajron, e della sua ossessione amorosa che la porterà alla follia. Non solo un film in costume (atmosfere evocate magistralmente, tra cifra reale ed onirica), ma un film politico sui ruoli di genere. In una Russia quale l’attuale dove in TV impazza un reality dal titolo ‘I’m not gay’ e l’omosessualità è chiaramente osteggiata dal presidente Putin (lo stesso regista ha avuto grandi difficoltà a reperire finanziatori per il film), parlare della omosessualità di Tchaikovsky, vero eroe e simbolo nazionale, significa compiere un’azione politica. Anche la giovane Antonina non accetta la vera identità del marito Pëtr giacché allontana da sé il suo amato, ostinandosi in una lotta estenuante che la vedrà soffrire e soccombere due volte: in quanto innamorata non ricambiata e in quanto donna costretta in ruoli e spazi esigui (essere moglie di, essere madre di) imposti e castranti, ma che risultano i soli per legittimarne l’esistenza. La cultura patriarcale, necessariamente binaria, è riflessa nelle riprese del regista tra orizzontale dei piani sequenza e riprese verticali dall’alto, quasi una croce senza via di uscita. Una cultura che generava e genera violenza alla quale è necessario resistere perché, come scrive Judith Butler ‘Il genere è un tipo di imitazione di cui non esiste l’originale’. Da vedere!
ASTEROID CITY

Asteroid City del regista statunitense Wes Anderson rappresenta l’ennesima declinazione delle tematiche e dell’estetica tipiche del regista. In una immaginaria città del deserto degli States si radunano giovani scienziati con il loro genitori per ricevere un premio, ma la convention viene sconvolta da un evento imprevisto e straordinario. Che la storia, una sorta di Oppenheimer in mood candy fifties, sia un pretesto per rappresentare le ossessioni estetiche del regista se ne ha in questo caso più di una semplice sensazione, immerso com’è in una eterna ‘Monopoli’ anni ’50, la cui ricostruzione è piacevolmente curata, ma un po’ fine a sé stessa. Solita parata di star, Jason Schwartzman, Adrien Brody, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Margot Robbie,Bryan Cranston che sembrano caricature più che personaggi, dalle movenze (poche) e interpretazioni da stop motion (vedi Isle of the dog, esperienza questa al contrario ben riuscita). In definitiva un divertimento personale di Wes Anderson un po’ fine a se stesso, forse indicativo della residuale spinta creativa arrivata a compimento ed esaurimento.
STRANGE WAY OF LIFE

Strange Way of Life del regista spagnolo Pedro Almodòvar è il secondo cortometraggio, dopo The Human Voice con Tilda Swinton, con il quale il Maestro si cimenta, questa volta omaggiando il genere western, giacché “il successo ad una certa età significa poter fare un po’ quello che ti pare”. Silva Pedro Pascal, dal suo ranch sperduto nel deserto, dopo 25 anni va ad incontrare lo sceriffo Jake Ethan Hawke, suo amore giovanile mai dimenticato. Se ci sia un secondo fine non ne abbiamo certezza; fatto sta che la passione riesplode intatta, ma all’indomani i due manifestano differenti prospettive: coltivare versus obnubilare quello che c’è stato, finché succede qualcosa che porterà, forse, a rivedere le posizioni. Che Almodòvar si diverta nel girare questo corto, ispirato ad una canzone di Amalia Rodriguez proposta all’inizio, lo si percepisce dalla cura maniacale delle scenografie di interni, dagli abiti firmati YSL, il cui art director Anthony Vaccarello è anche produttore del film e dal ritrarre un amore gay nel wild wild west, tempio del machismo per eccellenza (prima di lui solo Ang Lee con Brokeback Mountain). Nonostante la trama semplificata rispetto a quelle che si snodano come matrioske a cui ci ha abituato, ritroviamo tutti i topos del ‘western’: il duello, i cavalli, gli scenari, il fuoco notturno, i cappelli, i personaggi, così come le citazioni dei relativi film (in particolare nel finale L’Inganno di Sofia Coppola a sua volta ispirato a La Notte Brava del Soldato Jonathan con Clint Eastwood ). Il valore aggiunto in questo caso è rappresentato dal quid in più della cifra autoriale che irrompe sullo schermo quando Almodòvar narra di passione, desiderio, amore come pochi riescono a fare, specie in soli 30 minuti. Breve, ma intenso. Da vedere, perché il Maestro va sempre omaggiato.
IL CAFTANO BLU

Il Caftano Blu (t.o. Le Bleu du Caftan) della regista marocchina Maryam Touzani è una storia triangolare avvolgente, sensuale e delicata. Il filo del racconto si dipana attraverso i tre protagonisti: Mina, Lubna Azabal e Alim, Saleh Bakri (attrice e attore molto incisivi) moglie e marito, che insieme conducono una storica bottega di caftani nella medina di una antica città del Marocco, ai quali si unisce Youssef Ayoub Missioui, giovane apprendista. Sarà l’inizio di una serie di rivelazioni/individuazioni/passaggi intrecciati che permetteranno a ciascuno dei personaggi di compiere la propria personale evoluzione. La regista affronta la tematica della differenza di genere e dell’omosessualita‘ nascosta perché giudicata, in maniera sensibile e profonda, consegnandoci dei personaggi dai caratteri molto diversi, ma ugualmente affascinanti e seducenti nella loro complessa, apparente semplicità. Una storia intima, come le evoluzioni interiori sono, girata specularmente in interni (la bottega, la casa, la sauna), dal ritmo pacato, ma laborioso ed attento come quello dei ricami che adornano il caftano blu opera di Alim. Un ulteriore importante tassello nella lotta contro i pregiudizi di genere.
IO CAPITANO

Io Capitano di Matteo Garrone, Leone Argento per la migliore regia al recente Festival di Venezia, narra il viaggio da clandestino di Seydou, Seydou Sarr, meritatissimo Premio Mastroianni come migliore attore emergente, dal Senegal fino alle coste dell’Italia alla ricerca di un futuro migliore. Più che un’opera sull’emigrazione, il film è una storia di formazione, un coming of age che rispecchia più Pinocchio, precedente lavoro del regista, che un lavoro documentaristico di denuncia. Pur non tralasciando il dato concreto, anche duro (dalle morti nel deserto alle torture nel carcere libico), il regista non indulge in esso, anzi lo trascende per consegnarci una positiva storia di speranza, nonostante tutto. Questo grazie principalmente al personaggio di Seydou, i cui occhi sono letteralmente la lente interpretativa e comunicativa dell’intero film. Degne di nota la colonna sonora tra percussioni senegalesi e composizioni originali struggenti di Andrea Ferri e la fotografia calda e sabbiosa di Paolo Carnera. Film sommuovente.

About Alessandra Quagliarella
Di Bari dove ha frequentato il liceo classico Socrate e si è laurea in Giurisprudenza. Da sempre appassionata di cinema. Nel 2013 ha frequentato il Seminario residenziale di Critica Cinematografica organizzato dalla rivista di settore I duellanti nell'ambito del Bobbio Film Festival ideato e curato dal maestro Marco Bellocchio, nonché il corso di Storia del Cinema presso l'Uniba - Università di Bari a.a.2012/2013. Ideatrice della rubrica "Cinema e Psiche" su Cinemagazzino, rubrica che si propone una riflessione sulle vicende dell’animo umano tramite l’analisi del linguaggio espressivo di quel cinema che se n’è occupato. Nel 2015-2016 ha curato e condotto due trasmissioni sul cinema: 'Sold Out Cinema' e 'Lanterna Magica, 'entrambe su Controradio Bari. Nel 2023 ha curato la rassegna cinematografica collegata al Corso diretto dalla prof.a Francesca Romana Recchia Luciani per le Competenze trasversali dell'Università di Bari con oggetto la Violenza di genere. Nel luglio 2023 ha collaborato alla rassegna 'Under Pressure, azioni e reazioni alla competizione' e nell'ottobre 2023 ha partecipato all'evento 'Taci, anzi parla. Il punto sulla violenza di genere' con un intervento sul film 'Una donna promettente', entrambi organizzati dall'associazione La Giusta Causa. Nell'aprile del 2024 ha curato una lezione su ' Sesso e sessualità: dalle pioniere del cinema muto al cinema femminista degli anni 70' nell'ambito del corso di Letteratura di genere della prof.ssa lea Durante all'Università di Bari. Collabora con l'Accademia del Cinema dei Ragazzi di Enziteto. In particolare approfondisce i collegamenti tra gli studi di genere e cinema.