Un peuple et son roi: La proiezione più artica della Mostra (a un certo punto, indossato uno zaino pieno di indumenti, cercherò di indossare lo zaino stesso infilandoci dentro le gambe e valuterò se rinunciare a prendere appunti per cingermi la testa col quaderno) prosciuga le mie ultime energie nel mantenimento della temperatura corporea, a scapito della fruizione. Un Peterloo francese, più teatrale ed episodico (si svolge su quattro anni), ma altrettanto accurato, declamatorio e corale (come da titolo). “Classica rivoluzione”
Una storia senza nome: Il cinema come sognante strumento per indagare la realtà e quindi influenzarla. La metatestualità di Andò è più oculata e pertinente di quella di Bruni Tedeschi e si integra bene in un dispositivo oliato che prende l’aspetto di commedia piacevole e a tratti arguta. “Senza nome ma non anonima”
Memories of my body: Sulla proiezione androgina giornaliera crollo clamorosamente. Storia di maturazione (individuale, sessuale, coreutica) molto fisica e non priva di spunti. Nel complesso (della prima, cosciente mezz’ora abbondante), la scrittura e la regia anodine ne compromettono la riuscita. “Immemore”
The killers: Preoccupato dalla qualità media di Orizzonti, ne diserto l’ultima proiezione (ancora più rischiosa, in quanto opera prima); ovviamente il film in questione vincerà la sezione. Al suo posto recupero però il restauro della pietra (nera) miliare siodmakiana, che quantomeno vincerà la mia classifica giornaliera. Doppio gioco di doppio gioco in doppia narrazione (che doppia magistralmente Hemingway e l’intarsio episodico di Citizen Kane), piani sequenza e angolazioni da storia del cinema, esordio folgorante per un giovane Burt Lancaster e per un intero genere, il noir. “Nero abbagliante”
Driven: Il film deputato a pilotarci fuori dal festival è un (ennesimo) scorcio di (crisi del) sogno americano, sufficientemente distorto, anomalo e problematizzato da non annoiare. Pregevole la caratterizzazione ambigua del protagonista e – soprattutto alla luce delle difficoltà sopraggiunte in corso d’opera – la messinscena. “De Loreanum natura”
In the making of Driven: La produzione del film si è infatti svolta sulla Puerto Rico annientata dall’uragano Maria, con le spinose questioni etiche del caso (l’aberrazione di lavorare a un prodotto di intrattenimento elegantemente hollywoodiano tra gente che ha perso tutto si scontra con l’iniezione di posti di lavoro e stimoli per l’economia – nonché in questo caso di aiuti concreti in sgomberi, ristrutturazioni e trasporto di beni di prima necessità – che naturalmente la produzione di un film comporta). È questa circostanza a nobilitare massimamente il film e a giustificarne la posizione a chiosa di una selezione così epocale e lucidamente radicata nell’attualità: ne emerge un cinema resistente e coraggioso, giammai in crisi, che con le sue scatole magiche e i costumi sgargianti (è stato indubbiamente l’anno dei period drama) guarda con occhio critico al passato per capire il presente e affrontare con forza e carattere il futuro, facendosene concreto artefice e sporcandosi le mani in prima persona, un cinema che non si accontenta di rappresentare la realtà ma la crea (non a caso la giornata si apriva con uno Schoeller illuminista e un Andò che rifletteva su questi stessi temi). “Ritorno al futuro”
Introduzione all’oscuro: Il mio personale film di chiusura, scelto per il titolo (scoprirò solo alla fine sciarriniano) di luminosa occaso, appropriata allo spegnimento di proiettori e riflettori e ai miei ritorni catasterismici, è – una volta di più – un documentario, che si rivela tematicamente ancora più appropriato, nel suo esorcismo di un lutto privato, messo di fronte alla necessità di incontrare un fruitore e quindi non ripiegarsi nel solipsismo che non comunica e non commuove. Discontinuo ed errante, ma coglie nel segno. Un ottimo oggetto d’analisi per aspiranti filmmaker (Solnicki era membro della giuria per la migliore opera prima). “Iniziatico”
L’Elliofannia del giorno è l’estasi del ga(el)leotto asterofilo Charles(ton) di fronte alla sua Betel(le)geuse, che illumina la desolante oscurità monotona della sua cella in The Ki(e)llers.
(nella foto: Reintroduzione all’oscuro – dove si studiano le StElle)
APPENDICE (Tellegrammi satElliti): Tre VR dal giorno 11
The last one standing: Esperienza di immersione totale (l’installazione comprende una poltrona che simula gli scossoni e i moti inerziali della scatenata fuga in motocicletta volante che si vive nel visore), pirotecnica e conturbante (soprattutto per lo stomaco). Si intravedono possibilità sconfinate per la creazione di mondi non solo visibili a tuttotondo ma effettivamente esperibili. Come le storie di questi mondi verranno scritte è però un altro paio di maniche: la narrazione è qui assai scadente e non ci prova neanche a nascondere il suo ruolo di pretesto posticcio per l’esperienza fisica. “Gardaland”
Ghost in the Shell: Virtual Reality Diver: Il medium del VR è perfetto per tradurre i meccanismi e i temi del mondo di Shirou e Oshii, ma ancora una volta, consapevole di avere a che fare con uno spettatore inevitabilmente distratto dalla libertà di inquadrare quello che desidera (e dal desiderio di inquadrare tutto), la scrittura è approssimativa e incomprensibile, del tutto finalizzata a mostrare location variegate e mozzafiato (le fluide scene d’azione senza montaggio sono però particolarmente godibili, se si capisce dove conviene guardare). “VR’s ghosts in a nutshell”
Tales of Wedding Rings: La vera sorpresa di un VR finalmente funzionale alla narrazione viene – ovviamente – dal Giappone ed è – ovviamente – un ibrido calibratissimo ed equilibrato che mescola manga, anime e VR e inventa un nuovo medium dalle esaltanti possibilità. Il problema della mancanza di una vera e propria regia esterna che affligge i film in VR a causa della rinuncia al fotogramma (che dà grande autonomia allo spettatore ma sacrifica l’arte dell’inquadratura) è qui risolta mantenendo l’estetica e la struttura a vignette e balloon di un manga, i cui riquadri si muovono su vari piani bidimensionali nei quali ci si può sporgere per allargare il campo visivo, senza perciò controllare l’inquadratura. Come nel fumetto moderno, la composizione e la natura delle vignette è variegata (qui ancora di più, per il fatto che cambiano forma e dimensione in tempo reale), con bellissimi split screen multipli, sovrapposizioni di dettagli, splash page che si allargano tutto intorno allo spettatore per essere fruite nei classici 360 gradi del VR, con alternanze studiate, montaggio conforme a snodi e climax del racconto e grande maestria nel disegno delle inquadrature. Un vero assaggio di futuro. “Manga, anime e VR oggi sposi”